sabato 26 dicembre 2015

Classifica privata e altamente opinabile dei film che ho visto nel 2015


Alla fine dell'anno si comincia a fare bilanci. Sulle riviste online circolano già le classifiche dei 10 migliori film dell'anno. Da gennaio avevo cominciato a tener nota dei film che vedevo, sia al cinema che su SKY,  per una mia particolare passione per gli elenchi e le catalogazioni. (A volte penso che ho sbagliato mestiere e che avrei potuto fare più serenamente la bibliotecaria.)
A questo punto provo a cimentarmi anch'io in una personale classifica, cercherò brevemente di motivare i miei giudizi, fermo restando che sono ovviamente del tutto discutibili.
Direi che il primo in classifica è il film di Van Dormael.
    1.  Dio esiste e vive a Bruxelles.
Un film surreale eppure credibile, un Dio malevole e indifferente agli uomini, che gioca in modo crudele ed è pronto a sacrificare anche i propri figli. Ironico, coinvolgente e originale.
     2. Youth di Paolo Sorrentino
Fino a quando non ho visto il film di Von Dormael era il mio preferito, filosofico, incompiuto, geniale.
     3. Index zero di Lorenzo Sportiello
Sono stata molto indecisa su questo film, perchè mi ha angosciato con alcune scene claustrofobiche, però devo riconoscere anche in questo caso una forte originalità nell'affrontare la questione di un futuro distopico sul tema della sostenibilità della specie umana. Un film che fa pensare.
     4. Mia madre di Nanni Moretti
Riconosco che è un bel film, eppure non è riuscito a sembrarmi davvero riuscito, come se ci fossero state delle potenzialità non espresse. Troppi piani e sviluppi, non integrati.
    5. Hungry hearts di Saverio Costanzo
Un tema importante, difficile, reso con atmosfere e immagini più che con le parole, intenso. Gli attori entrambi bravissimi.
   6. Mustang di Deniz Gamze Erguven
Mi sembra meritare un posto per la capacità di descrivere una famiglia e un ambiente sociale che risultano lontani e difficili da comprendere per la nostra cultura. La storia è commovente, ma non troppo retorica.
   7. Il racconto dei racconti di Matteo Garrone

Purtroppo non amo molto i film fantastici, anche se questo non si può certo definire tale, è infatti crudo, violento e a volte volgare come erano davvero le fiabe. Riconosco il valore di una tecnica virtuosa, ma non l'idea e il contenuto coinvolgenti. Decorativo più che sostanziale.
   8. Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno
Una commedia agrodolce, dal tema sociale di attualità, con attori bravi, anche se già visti in questi ruoli.
   9. Mon roi di Maiwenn Le Besco
E' un film drammatico, girato con buona tecnica, ma troppo basato su una storia "né con te né senza di te" e troppo calcato sull'interpretazione gigionesca di Vincent Cassel. Lei ha vinto un premio, non così meritato.
  10. L'attesa di Piero Messina
Poteva essere migliore, poteva riuscire a  descrivere  l'incredulità, lo shock, la negazione totale della perdita di un figlio. Ci ha provato, forse  chi non ha perso davvero un figlio potrebbe anche dire che ci è riuscito. Io no. La Binoche è un po' troppo statica.

martedì 25 agosto 2015

Elena Ferrante e la smarginatura del femminile


Ci sono libri che toccano qualcosa di profondo in noi, che non si riesce subito a capire e ci vuole tempo per elaborare. Ho letto i quattro volumi de L'amica geniale, come faccio sempre quando una lettura mi appassiona, tutti di seguito, nel mese di maggio. Ho pensato di scrivere qualcosa, ma mi ci sono voluti mesi per rifletterci.
Intanto la Ferrante non ha vinto il premio Strega.
Intanto ho letto un altro libro di psicoanalisi infantile, Il dramma del bambino dotato, un libro di Alice Miller, psicoanalista controversa, che si è allontanata dalla società psicoanalitica in polemica sulla teoria dei traumi infantili, perchè sostiene che i bambini sono oggettivamente maltrattati, sia fisicamente che psicologicamente, e che questa è la radice del malessere sociale nel quale tutti viviamo. Mentre  la psicoanalisi considera con cautela  la realtà del trauma psichico, dando maggior spazio alle fantasie infantili ed alle angosce, considerate primarie, della nostra esistenza.
La Miller sostiene che le madri, in particolare, creano un rapporto patologico con i propri figli, un rapporto nel quale riversano il disprezzo, come una  rivalsa delle ferite ricevute della loro infanzia.
Oppure le madri  si vendicano  nel rapporto con i figli  del rinnovato dolore che suscita la trascuratezza o la violenza  del compagno, anch'egli ferito, sempre, inevitabilmente, da una madre.
Anche le relazioni del romanzo de L'amica geniale sono relazioni piene di violenza, di rancori, di gelosie e invidie, di rispecchiamenti e di simbiosi malate.
Però sono colme di sentimenti e di creatività e di rivalse che possono  ad un certo punto essere in qualche modo salvifiche. Ci sono traumi e tentativi di sollevarsi dal trauma, cadute e riscatti, incompiuti spesso. Ambivalenti spessissimo.

Lila scompare, non lascia tracce, non vuole essere trovata.
Allora Elena, Lenuccia, Lenù, scrive di lei, racconta la loro storia, la storia di una amicizia.
Nel leggere L'amica geniale si segue il filo del gioco doppio delle identità. Lenù  si confronta con il suo doppio Lila, nata il suo stesso anno, nello stesso mese, che vive nello stesso quartiere. Giocano con le bambole e Lila le butta la sua in uno scantinato buio dell'orco del condominio. Come in una favola le bambine vanno a cercare la bambola e non trovandola Lila ha il coraggio di bussare alla porta dell'Orco, ma prima prende per mano Lenù.
Cerca il coraggio? Vuole consolarla e incoraggiarla?
Comincia il gioco di specchi tra le due amiche.  Non si sa chi tra le due sia davvero l'amica geniale, l'amica che ha il Genius, l'ingegno, ma anche il demone che scombina le carte, che trasgredisce le regole.
Lila è coraggiosa, ma è anche cattiva, è capace di leggere e comprendere argomenti nuovi velocemente e in modo profondo, ma non porta a termine i suoi progetti e basta uno scatto di orgoglio ferito per buttare tutto all'aria. Lila la scarpara, la commerciante, la sposa invidiata, l'amante, l'operaria. la sindacalista, l'informatica. Lila che vuole solo non lasciare tracce, che critica il successo e spinge l'amica a trovare la sua strada.
Lila che ama, viene abbandonata e  tradita. Lila che viene di nuovo adottata da un amante modesto, ma fedele, Enzo.

Lenuccia ha una madre claudicante, che la controlla, la giudica e tenta di tenerla con lei, a scapito dei suo talento, una madre gelosa che si irrita per l'attenzione che la bambina suscita nella sua maestra, che le fa pesare i soldi per fare l'esame e passare alle scuole medie. L'esame che Lila non potrà fare.
Lena non vuole essere come sua madre, si allontana da lei e da Napoli (e da Lila) alla ricerca di un riscatto attraverso la cultura e la scrittura.

Le madri sono davvero il motore di tutto? Sono la radice dei traumi e dei riscatti? Hanno la colpa di aver generato e la colpa di essersi aspettate qualcosa dal frutto del loro grembo?
"Io ti ho fatto ed io ti sfaccio" dicono a volte ai loro figli..

Lena lascerà le sue bambine insiema al marito, tradito per stare con il suo amore, inseguito per una vita, lo stesso che aveva tradito Lila. Anche la protagonista de I giorni dell'abbandono, altro racconto della Ferrante, vive i figli come un peso, un ostacolo, anche la professoressa de La figlia oscura lascia le figlie al marito.
Invece Lila  "perde" la sua bambina, che scompare, forse rapita, forse uccisa. Un altro trauma della maternità. Madri che abbandonano, madri che soffocano, madri che cercano una soddisfazione nella vita delle figlie. Figlie che amano e detestano le proprie madri, che si allontanano, che scompaiono.

Entrambe le protagoniste sembrano rappresentare i conflitti dell'essere donne nella seconda metà del Novecento, la tensione verso la libertà dai ruoli della famiglia di origine, che si acquisisce solo
sposandosi, ma anche l'emancipazione attraverso lo studio, che porta Elena a conoscere il mondo del femminismo, mentre Lila si emancipa nel lavoro e nel ruolo di sindacalista. La difficoltà di conciliare il lavoro di cura dei figli con il proprio lavoro e le proprie ambizioni. Il tradimento  più grande sembra quello di essere indipendente dall'obbligo della maternità e dalla seduzione

Non è facile riuscire a rendere l'intreccio di tutti questi piani e temi, che si snodano lungo i quattro romanzi della Ferrante: i due assi che si intersecano, della costruzione della identità femminile e quello delle relazioni madre-figlia, uomo-donna, sono interconnessi e mobili allo stesso tempo e attraversano varie storie collaterali.

La perdita dei margini, la smarginatura, l'esperienza che trasforma la realtà di ogni giorno in una mondo che si scioglie, perde consistenza e senso, simboleggia forse la difficoltà di creare una identità femminile, materna, individuale e sociale per le due amiche.
Daltronde anche Elena Ferrante non c'è, al di là della sua scrittura non esiste, non è vista. (e proprio per questo suo nascondersi all'ineluttabile commento mediatico sul suo aspetto, sulla sua vita privata, penso che sia una donna).

Quindi credo  che avrebbe meritato di vincere il premio, lo Strega o un altro, perchè a differenza delle interpretazioni lineari che dà l'analista Miller, la Ferrante raccontando di donne si interroga sulle loro relazioni e sulla loro difficile identità di madri, spose, figlie, scrittrici, operarie, senza dare risposte, senza suggerire soluzioni, come ogni grande romanziere, che tenta di ricostruire la complessità della vita.

Per quello che riguarda me, invece, la riflessione che alla fine è emersa dalla lettura della Ferrante è che il compito più complesso è certamente  riuscire ad amare i figli per quelli che sono e non per quello che vorremmo che fossero, ma soprattutto, da figlie adulte, ad amare le madri così come sono e non per quelle che vorremmo fossero state.


venerdì 7 agosto 2015

Azzurro, verde e rosso, Corsica



Iniziare a raccontare i colori della Corsica con l'azzurro intenso del mare è una banalità, ma le cose belle e  vere spesso sono banali. Però un'acqua così trasparente sulla sabbia bianca io l'ho vista solo in Egitto, sul mar Rosso, invece era la Baia di Tamarone. La sabbia poteva essere anche verde, dove c'erano le rocce di ardesia, ad esempio nelle baie occidentali di Cap Corse, o rosse, rosate, dove era più presente il granito, come nelle spiagge della baia di Sagone.
Verdi sono anche le valli tra le montagne rosse di granito delle catene centrali della Corsica, dove si sale in pochi chilometri di strada e sentieri già a 1700 metri sul livello del mare. Si ritrova l'azzurro profondo dei laghi, l'acqua trasparente e fredda dei ruscelli, i tetti dei rifugi, abbandonati dai pastori,  in lastre di ardesia verde.
Le strade sono strettissime, soprattutto in montagna, ma anche sulla costiera o per raggiungere le spiagge più belle, a volte da paura, e i corsi guidano invece come matti e ti  sorpassano se vai troppo piano. Alcuni tratti di asfalto poi sono rosa, forse sempre per via delle rocce rossastre che dominano l'isola.
Abbiamo spesso fatto merenda con le more dei rovi  che accompagnavano i senieri fino al mare.
Ci è sembrato di non essere davvero all'estero. Sarà che ormai in molti paesi europei lo stile di vita è così simile, che è difficile sentirsi davvero estranei, ma in Corsica i paesaggi, la lingua, le usanze, le case, l'architettura, i nomi ricordano moltissimo la Toscana o la Liguria o le isole come l'Elba e la Sardegna.
Anche le facce delle persone sono così simili alle nostre che  potevamo sentirci a casa.
A Bonifacio abbiamo visitato il cimitero marino: i cognomi erano tutti di origine italiana, anzi toscani per lo più: Andreini, Bartoli.
Le persone più anziane poi parlano il corso, che è una forma di toscano antico, con alcuni termini che assomigliano al genovese ed a volte al sardo. Ci siamo fermati in una cantina a Sartene a parlare con la proprietaria Maria Antonia, una signora che in corso ci ha raccontato che il padre faceva già il vino, che i vigneti della zona sono autoctoni (tra l'altro molto buoni, il Nieluccio e  lo Sciaccarello, che somiglia al sangiovese). In un altro negozio a Portovecchio una signora ci ha invece detto che preferisce i turisti italiani, perchè chiedono il permesso e sono sempre sorridenti. In genere sono stati tutti molto genitli ed ospitali nei nostri confronti. Comprendere la lingua, pur avvertendone le differenze, e sentirsi capiti, anche se non in tutto, ci ha dato davvero la sensazione di essere tra fratelli, vicini e diversi.
Abbiamo anche trovato un giovane cameriere, in una trattoria di Corte, che parlava corso. Forse lo ha studiato a scuola, perchè da circa vent'anni è diventato una lingua che si studia, però è rimasta facoltativa.
Il governo francese teme forse che dare spazio alla cultura corsa rafforzi le rivendicazioni indipendentiste, mentre penso che solo una accettazione democratica della differenza, uno spazio autogestito e identitario alle minoranze, che rimanga però all'interno dello Stato francese, possa spegnere le rivendicazioni.
Fa effetto girare e vedere sui muri scritte come "Francia  fora", "Ghjuventù Indipendentista", FNLC (fronte nazionale di liberazione corsa). Mi hanno spinto ad approfondire la questione. Pensavo che in Corsica ci fossero gli stessi riconoscimenti al bilinguismo che ci sono in alcune aree dell'italia, come l'Alto Adige o alcune aree della Valle d'Aosta, invece ho scoperto che ancora i corsi non hanno i riconoscimenti che richiedono, la parità linguistica, un diverso status fiscale più vantaggioso, una amnistia per i prigionieri politici.
Quindi se le proteste avvengono in modo pacifico, dato che dall'anno scorso il FNLC ha deciso di smilitarizzarsi,  è  giusto sostenerle. Alla base di molte questioni indipendentiste c'è una ingiustizia, ma pensare di sanare una ingiustizia con un'altra è da folli e non fa che alimentare le catene di violenze, come anche altre questioni nazionali rendono evidente.
Abbiamo discusso di questi temi con due ragazzi torinesi conosciuti a Corte, in una trattoria che non a caso si chiama Terra corsa, dove ho mangiato un ottimo agnello al latte al Muscat, tenerissimo ed abbondante.
La cucina corsa  è abbastanza povera, quando è quella tipicamente regionale: hanno il porcu, il cignale, il brocciu, che è un formaggio tipo la nostra ricotta che viene usato per moltissimi piatti. Può essere di pecora o di capra e viene mescolato anche al risotto di mare (con un risultato che a me non è per niente piaciuto). Gli antipasti quindi sono a base di salumi ( molto buoni) e formaggi accompagnati da marmellate, fantastiche quelle fatte in casa di fichi e di castagne. Anche le melanzane alla bonifacio sono un piatto tipico: melanzane al forno ripiene di brocciu, pomodori e cipolla. Poi carne alla brace, poco pesce, agnello e capretto al vino Muscat, un altro vino tipico, ed anche della buona birra locale, Pietra e Lutina. Ravioli al brocciu, torta al brocciu, gelato al brocciu.
Sulla costa andava forte anche un piatto che mi è sembrato strano ed ho voluto provare, moules e frites, in pratica una zuppa di cozze marinate accompagnate da un piatto di patate fritte, pensavo che l'associazione non funzionasse ed invece non era male.
I ristoranti sono abbastanza approcciabili, tranne qualche caso in cui ti fanno pagare una semplice insalata di polpo 24 euro o una bottiglia di vino 26. Il vino al ristorante costa molto di più, quando poi se ne compri una bottiglia in una cantina, anche della stessa marca, lo paghi la metà. Ristorante migliore Aux bons amis, a Calvi: Tartare di tonno alle mele verdi, Triglie con tartine di formaggio e verdure, San pietro con carciofi e salsa di zafferano, Tiramisù ai frutti di bosco e Carpaccio di ananas.





lunedì 15 giugno 2015

Confuso con l'ombra

Non è facile leggere e commentare un libro di una persona che si conosce, che scrive di luoghi e di persone che si frequentano, anche quando sono descritte attraverso un proprio personale filtro ironico e surreale.
Il registro stilistico del libro Confuso con l'ombra, di Stefano Adami, sembra fin dall'inizio la parodia, la recita dell'assurdo, che però rimanda, per chi conosce l'autore, ad una serie di eventi o temi che sono anche  riconoscibili.
La mia difficoltà quindi è stata riuscire a distanziarmi dal gioco del riconoscimento e cercare di immergermi nel flusso della creazione di Stefano, cercando di abitarla come un universo nuovo. Man mano che procedeva la lettura  è diventato più facile intravedere la logica di una assurda mafia degli editori, vivere gli ambienti claustrofobici delle biblioteche e del lavoro  intellettuale,  provinciale o cosmopolita, sentire la sensazione paranoica del giudizio, della valutazione, l'aspettativa del successo o della caduta. In sottofondo rimane la storia della disillusione della seduzione, il rapporto frustrante e sadico con una donna. La ricerca sul linguaggio è uno dei punti di forza del libro, il tentativo di rendere atmosfere e persone ognuna attraverso una cifra linguistica originale.
Invece non mi ha convinto la  sproporzione tra la centralità dell'io-tu narrativo (lo sdoppiamento dell'autore-personaggio) rispetto ai personaggi di contorno: la parodia romanzata, il romanzo surreale avrebbero a mio avviso guadagnato da un maggior approfondimento degli altri, che appaiono invece a volte solo come maschere, figure archetipiche o parodistiche, senza spessore.
Nel gioco di riconoscere Stefano e il suo "brodo primordiale" e allo stesso tempo di distanziarsi e di immergersi nella opera prima di un autore promettente, mi sono comunque divertita e incuriosita dei libri successivi che ha scritto.

giovedì 4 giugno 2015

Che ci facciamo noi nel PD due anni dopo.....(la mia crisi da civatiana)

Solo due anni fa scrivevo che stavamo nel PD per la presenza di idee e persone che potevano davvero farcela a cambiare questo paese, sempre così immobile tra la protesta velletaria e la difesa dei privilegi acquisiti.
Scrivevo che finchè ci sarebbe stato Luca Pastorino, come buon amministratore di sinistra, avremmo potuto credere che il PD poteva farcela a governare. Pastorino è uscito dal PD  dopo una brutta vicenda su primarie non corrette. Ora ha avuto circa un dieci per cento di consensi in Liguria, ma il PD ha perso il governo della Regione.
Scrivevo che finchè ci sarebbe stato Filippo Taddei la politica economica che avremmo portato avanti avrebbe modificato degli equilibri nel mondo del lavoro. Poi Taddei è diventato sottosegretario nel governo Renzi  e il Jobs act ha trovato oppositori tra gli stessi compagni che l'ascoltavano al Politic Camp di due anni fa.
Avevo la speranza che noi "civatiani" non saremmo diventati una corrente scissionista, che ce l'avremmo fatta a rimanere una coscienza critica ed a fare delle proposte che venissero accettate ed integrate nel partito. Anche con delle mediazioni. Penso che Civati abbia provato a farlo.
Ma l'ascesa di Renzi, la popolarità che ha creduto di ottenere, gli hanno  fatto credere di poter fare da solo, senza mediazioni, senza ascolto verso chi aveva cominciato un cammino insieme a lui. Sembra che si stia rinchiudendo in un fortino di ferro, sembra che gli vada bene l'autoesclusione di coloro che non condividono in pieno la sua politica.
Però se rimane Bersani, D'Alema perchè se ne va Civati? Per fare cosa?
Davvero crede che si possa riformare un partito di sinistra?
Quale sinistra?
Ad una manifestazione di SI Toscana a sinistra  a Grosseto, con la partecipazione di Vendola, saremo stati in piazza non più di una quarantina di persone. Età media 50 anni. Una tristezza incredibile. Vendola stesso ha detto che si è persa la fiducia che la sinistra possa davvero cambiare il paese. Si è persa la fiducia che una politica di sinistra rappresenti il cambiamento. SI Toscana ha preso il 6%, la quota che ha perso Rossi, la Lega di Salvini è salita
intorno al 17%.
Per questo Renzi insiste così tanto sul continuare con le riforme che ha promesso, a qualsiasi costo, come quello di perdere pezzi del partito. Vuole riuscire a mantenere la speranza che il suo governo rappresenti questo cambiamento, ma poi deve fare i conti con dei compromessi con la vera parte sociale che rappresenta, che vuole sì un ammodernamento, ma non un cambiamento radicale.
Credo che i i ceti sociali rappresentati dall'attuale centrosinistra siano favorevoli ad una minore burocrazia statale, ad uno snellimento delle procedure nel mondo del lavoro, ad una compartecipazione privata nei servizi di base, ad una scuola più efficiente e che formi attraverso competenze e merito, così come sono stanchi della corruzione, dei favoritismi, anche nello stesso partito democratico.
Sono per una tiepida protezione sociale, per un tiepido riformismo sui diritti civili, per le coppie di fatto, ma non per i matrimoni gay. Non sono favorevoli ad una tassa patrimoniale, perchè colpirebbe in fondo anche le seconde case che hanno costruito con tanta fatica al mare, ma potrebbero accettare l'estensione di un reddito minimo per chi non trova un lavoro.
Una parte di questo elettorato aveva creduto anche alle promesse moderniste di Berlusconi, poi però  rimasto deluso dal fatto che l'unico ad aver guadagnato dal suo ventennio di governo è stato lui e le sue aziende.
Invece quali ceti sociali si riconoscono in una sinistra più radicale? Pochi illuminati ceti intellettuali, borghesi, insegnanti, qualche impiegato, scarsissimi operai, alcuni precari, alcuni studenti. Non la maggioranza degli operai, non la maggioranza degli impiegati, non la maggioranza degli studenti e neanche degli insegnanti.
Per questo era importante che almeno alcuni di questi si sentissero rappresentati, all'interno del PD, da Pippo Civati. Poteva essere l'occasione di far comunque passare alcune riforme più radicali, di far pendere almeno a volte, la bilancia verso cambiamenti meno tiepidi. Uscendo dal PD si perde anche questa occasione e non si va verso una aggregazione davvero in grado di incidere.
Mi si obbietterà, come sta dicendo ora Pastorino, che i suoi voti non sono gli stessi del PD, che c'è una urgenza e una necessità di andare a pescare di nuovo i voti della sinistra radicale.
Non credo proprio, come direbbe Crozza-Razzi.
I voti più radicali sono diventati voti disillusi, voti che vengono dati al M5S, che promette una diversità da tutto il ceto politico (ma poi non sa come amministrarla in parlamento e negli enti locali non sono poi così diversi dalle buone amministrazioni di centrosinistra). Oppure ancora alcuni forse sono andati alla Lega, che sembra dare dei veri nemici, facili, individuabili, che si possono eliminare semplicemente con le ruspe.
Molti, moltissimi, non votano più.
Vivono tiepidamente nelle loro cerchie di affetti e realizzazioni personali, abbastanza bene da non protestare, abbastanza disillusi o ignoranti o arrabbiati da credere che la politica non li riguardi.



giovedì 28 maggio 2015

La genialità di Paolo Sorrentino (che non hanno visto a Cannes) e la caduta dei sogni.

Cosa significa realizzare i propri sogni?
Ho l'impressione che il film di Sorrentino giri anche intorno a questa domanda, insieme a molte altre.
In occidente  la missione più importante dell'esistenza individuale è costruirsi delle aspirazioni e lottare per renderle reali (voglio diventare un calciatore, un cantante, una attore, la donna più bella del mondo, il regista più famoso). E poi? Cosa significa realizzarsi? Come si  guarda al proprio passato dal futuro realizzato?
La scena del cannocchiale rovesciato, il futuro vicino, il passato lontano, fa come da cornice alla storia di un ottimo musicista che  non è un buon padre, al suo  rapporto con la figlia, con la moglie amata e trascurata.
Un attore  vuole mettere in scena il desiderio e non l'orrore di Hitler e osserva i desideri e gli orrori dell'albergo, osserva i corpi in fila per le cure termali , i corpi e la decadenza, i corpi e la bellezza nuda della giovinezza. Cosa rimane di tutta quella bellezza? Come si possono coniugare l'orrore di una maschera e l'eleganza del lusso?
La figlia del musicista  scopre che una forma di amore  non è per la bellezza, ma per la sguaiatezza.
Sorrentino presenta le storie senza giudicarle, senza interpretarle, solo con la musica e le immagini, come se fosse solo la vita, per quello che è.
Intreccia i personaggi e li fa intravedere nella loro parte incompleta: la coppia che non si parla, lo scalatore e la figlia del musicista, Maradona ed il modo in cui il suo corpo si è ridotto, Miss universo ed il suo corpo perfetto e poi le canzoni semplici, che sono popolari, ma anche bellissime.
I bambini già così consapevoli.
Tutti sembrano parlare come filosofi, tutti cercano di dire e dare un significato alla loro ricerca di felicità.
Non è un film realistico, è un film che cerca di presentare le essenze, come se provasse a dare una concettualizzazione a domande complesse. Ma non sono solo suggestioni, sono quasi punti di vista filosofici.
La storia del regista e della sua attrice, la delusione del suo rifiuto, dopo averla scoperta e sostenuta, sembra mostrare il rifiuto di continuare a vivere una vecchiaia che non si è realizzata.  Le domande sulla fine del film, su come finire una storia, possono essere domande su come finire la nostra vita.
Quando  il regista Keitel  dice siamo solo comparse e quando  pensa di aver compreso le donne nei suoi film ed invece gli compaiono davanti come marionette non siamo di fronte a delle sequenze di una vicenda, ma a dei pensieri in immagini e non a dei pensieri compiuti, ma a delle domande, a degli spunti.
Quello che per me rappresenta la genialità è proprio l'incompiutezza, il non voler per forza stringere i personaggi e le storie in tesi precostituite, ma l'accennare degli sviluppi nei quali ogni spettatore può trovare la sua domanda, la sua riflessione, il suo punto di vista.
Io ad esempio ho sentito emergere la domanda co cui ho iniziato queste riflessioni, ma altri potrebbero benissimo avervi visto o sentito altre domande, qualcuno evidentemente non vi ha sentito nulla (ad esempio Fofi lo stronca).
Può succedere anche ai grandi film.

martedì 19 maggio 2015

Mia madre

A volte ci sono film che sanno colpirci subito, altre volte ci vuole del tempo per elaborarli e capirli.
Mi ero fatta alcune aspettative su questo film, che invece non hanno trovato un corrispettivo. Margherita Buy riesce a rendere bene, forse anche troppo, la nevrosi dell'alter ego morettiano.
John Turturro è un vero istrione nel mettere in scena i vizi ed i vezzi di un attore straniero in Italia, in effetti le scene del suo personaggio alla guida della macchina, mentre cerca di recitare e di guidare nonostante la telecamera montata sul cofano, sono  davvero divertenti. Anche Giulia Lazzarini risulta molto credibile nel suo ruolo di madre malata e un po' confusa. E' tenera e autorevole allo stesso tempo.
Eppure non sono uscita dalla sala convinta. Il senso di angoscia che mi ha provocato non era solo in relazione allo stile e alla storia del film, era anche dovuto ad un senso di incompiutezza, una sorta di sensazione di non integrazione tra i vari piani che il regista ha voluto presentare.
Come se non riuscissi a trovare la cifra tra la messa in scena di un film sugli operai, anacronistico e finto, il sorriso e l'ironia dell'attore italo americano, le insicurezze della regista, la difficoltà di accettare la malattia e la morte della madre, i sogni incoerenti di Margherita.
E' vero che il dolore colpisce e si insinua nelle crepe della quotidianità e che si può continuare a vivere come se non fossimo circondati dalla angoscia. E' vero che si può aspettare la morte di una persona amata e non esserne davvero consapevoli, che si può mantenere scissi i piani del lavoro e quello della relazione di cura. E' tutto molto realistico.
Eppure a me è sembrato che mancasse di intensità.
I dialoghi mi hanno lasciato perplessa, come se non riuscissero ad andare davvero in profondità.
Un bel tentativo, ma incompiuto. Anche il ruolo defilato che si è riservato Moretti risulta troppo sfumato. E' un film di accenni, senza sviluppi.
C'è però una scena che per ragioni personali mi ha invece coinvolto molto, quella nella quale Margherita insegna alla figlia ad andare in motorino, una scena semplice e commovente. Valeria, seduta accanto a me , mi ha guardato, ci siamo capite senza parole.
Chissà se il film a Cannes conquisterà la giuria, il pubblico francese sembra esser stato già convinto.

venerdì 17 aprile 2015

Meditazione mindfulness V. Per uscirne bisogna passarci in mezzo.

Ho finito di leggere un bel libro sulla meditazione, sul buddismo e la psichiatria, La lezione della serenità. L'autore è uno studioso, uno psichiatra statunitense, che è anche un buddista, Mark Epstein.
L'aspetto interessante della sua analisi è il tentativo di leggere la figura del Buddha ed il suo messaggio come il frutto della elaborazione del trauma della perdita della madre.
Tale elaborazione si compie  attraverso gli anni nei quali  il principe Siddharta ricerca una soluzione alla consapevolezza del dolore della esistenza, prova varie pratiche e filosofie ascetiche, ma alla fine sotto l'albero della Bodhi raggiunge l'illuminazione. Il ricordo di un momento di gioia della sua infanzia, un momento nel quale Siddharta sembra  recuperare uno stato di unione con la madre perduta, dissociato dal momento del suo trauma, sembra essere la radice che permette di osservare e tollerare la sofferenza del mondo.
Il trauma provoca  una dissociazione delle emozioni catastrofiche dallo stato di coscienza attuale. A volte anche alcuni stati primitivi di de-sincronizzazione nella relazione tra la madre ed il neonato, secondo alcune odierne scuole psicoanalitiche, possono provocare stati emotivi che vengono dissociati.
Seguendo uno studioso, lo psicoanalista Philip Bromberg, autore di Clinica  del trauma  e della dissociazione, si potrebbe dire che  il modello che il Buddha propone come metodo della consapevolezza  consiste nel riuscire a stare negli spazi tra i Sè dissociati.
Nel frattempo le mie meditazioni sono diventate più regolari, ormai riesco a meditare quasi tutti i giorni, ho cominciato con quindici minuti al giorno, ora sto cercando di meditare per mezzora, perché mi accorgo che solo dopo un certo tempo, se supero il flusso continuo dei pensieri e li lascio scorrere, riesco a concentrarmi solo sul respiro e su una sorta di suono interiore.
E' diventato molto più facile immergersi nel flusso di consapevolezza, al punto che anche durante il giorno, se qualcosa mi irrita, mi rende inquieta, mi basta ricordarmi del mio respiro, ritornarvi per un attimo, per interrompere l'inquietudine, per distanziarmene. Non dico che quindi mi è sempre possibile superare le emozioni negative, però almeno è più facile identificare quali sono le emozioni, gli stati, le sensazioni, i sentimenti che sto provando. Poi posso anche rimanere, anzi in certi momenti non c'è altra soluzione che rimanere, con  quella emozione, però con  consapevolezza e chiarezza mentale. Come recita una massima buddista "per uscirne bisogna passarci in mezzo".
Anche la psicoterapia in fondo insegna qualcosa di molto simile: non è possibile evitare la nostra sofferenza, distogliere perennemente lo sguardo da ciò che ci ferisce, cercare in ogni modo, più o meno nevrotico, di evitare i pensieri, i ricordi, i nostri stati traumatizzati. Per trovare una soluzione è necessario passarci in mezzo, accettare di analizzare, ricordare, stare con quelle emozioni, stare in mezzo al conflitto, alla mancanza, alla ambiguità.
Anche la psicoterapia, quando è condotta senza eccessivo coinvolgimento del terapeuta, cioè senza che il terapeuta abbia già pronte delle risposte, lascia al paziente uno stato di attenzione libera e fluttuante nella quale è lui stesso e solo lui a trovare una risposta ai suoi dilemmi. Quello che succede spesso però in alcune psicoterapie è che le parole più superficiali, le razionalizzazioni, occupano molto spazio, troppo rispetto al flusso di coscienza spontaneo del paziente.
La tecnica della meditazione Mindfulness permette di creare all'interno di se stessi uno spazio nel quale il flusso dei pensieri, delle emozioni  e delle sensazioni può scorrere ed autosservarsi.
Perché nessuno può garantirci la felicità in questa vita, neanche la serenità, se non siamo disposti ad attraversarla in ogni momento di tristezza, gioia, disperazione o esaltazione con partecipazione consapevole e distaccata.
E' un principio semplice da dire, ma molto più complesso da mantenere: si dice "vivi ogni momento come fosse l'ultimo", perché è facile capire l'immensa fragilità della nostra esperienza.
Ma poi giorno per giorno ci attacchiamo ai nostri desideri, alle passioni, anche alla nostra frustrazione  e sofferenza, come se fossero assolute.
Nelle mie meditazioni un pensiero che torna spesso è la perdita di Matilde, ovviamente. Molte volte questo pensiero si associa alle lacrime, che lascio scorrere. Ma più frequentemente Matilde dona una luce di relativismo a tutto il resto, diventa come un metro col quale misurare ogni preoccupazione, ogni angoscia, mi ricorda incessantemente che tutto quello per cui mi posso preoccupare giorno dopo giorno non è nulla di fronte al ciclo delle vite e delle morti nel quale siamo tutti inseriti. Mi fa sperimentare, nella ferita che si rinnova, la necessità di apprezzare tutto e allo stesso tempo di non attaccarmi a nulla di quello che vivo.


martedì 24 marzo 2015

Sincronicità, frammenti.

Segni per comunicare qualcosa che riguarda solo me stessa, nel mio colloquio interiore, come un flusso inarrestabile di sincronicità.

Un documentario sulla vita del Budda, che ha raggiunto l'illuminazione sotto l'albero della Bodhi, cercando la soluzione alla sofferenza dell'uomo.
Un sogno di un viaggio, in un tunnel, per arrivare ad una casa con  una piscina.
La meditazione insieme ad una paziente, il percorso di riflessione sui suoi pensieri automatici sul cibo.  La stupidità, l'inessenzialità dei nostri pensieri.
Il Libro rosso, il significato della rinascita.
La confluenza degli opposti, il senso di colpa e la redenzione.
Come ottenere il perdono, come rinascere.
La nascita del figlio di un amico.
La gravidanza possibile e impossibile di mia figlia.
Il mio matrimonio, una rinascita impossibile.
Ancora sogni sull'acqua, sul mare,  è sempre diverso, in movimento.
Un pesce che si trasforma in un cinghiale e poi in un bambino, l'evoluzione.
La primavera che sembra arrivare e non arriva, di nuovo.
La meditazione ogni mattina, la chiarificazione dei pensieri, non la loro scomparsa, ma una più profonda presenza, fino alla essenza.
L'esercizio di scrivere i sogni, che sfuggono e poi tornano per un piccolo particolare.
Un documentario su civiltà scomparse, un luogo della Valle dei re, a Luxor.
Il museo egizio a Bologna, defunti da millenni, che mai avrebbero pensato di essere esposti.
Circoli e circoli di pensieri, vagano, tornano, scompaiono.

giovedì 26 febbraio 2015

La sottomissione, l'Islam, Marte e Venere.

Una riflessione che ho fatto leggendo il libro Sottomissione riguarda il ruolo delle donne. Mi sembrava incredibile che in quella storia  le donne occidentali accettassero la sottomissione agli uomini,  un cambiamento così radicale del loro ruolo. Mi sono così identificata in tale ipotesi che ho immaginato forme di protesta e contestazione, così come avrebbe dovuto descriverle nel romanzo Houellebecq, se fosse un autore meno misogino di quello che ci tiene ad apparire.
Ho cominciato poi a ragionare sul perché nei paesi arabi non ci siano  movimenti di protesta delle donne, almeno dalle notizie che se ne hanno da noi. Mi sono allora informata un po' in internet ed ho trovato che nei paesi occidentali ci sono donne musulmane che spingono per adeguare la religione ai tempi moderni, sostenendo che non vi è un motivo religioso per escludere, ad esempio, le donne dalle moschee, o intendere la sottomissione al marito in senso letterale o seguire altre regole che sono consolidate secondo la tradizione, ma non hanno un senso morale.
Un punto base da comprendere della religione islamica è proprio che non c'è una unica guida o una unica comunità alla quale riferirsi, come è accaduto invece per la religione cristiana, che riconosce nel Papa e nel Concilio gli interpreti unici del messaggio cristiano. E' più difficile quindi per chi osserva dall'esterno orientarsi negli usi e nelle forme che prende la religione musulmana a seconda della comunità  (sunnita, scita, salafita ecc.)
Quindi quando anche alcune comunità cominciassero a modificare le proprie tradizioni religiose e culturali, queste non sarebbero automaticamente accettate da altre comunità, più profondamente inserite in contesti nei quali ad esempio il ruolo della donna è ancora quello della famiglia patriarcale. Le battaglie del femminismo_islamico si svolgono  in prevalenza nei paesi occidentali.
Del resto anche nelle democrazie europee o nordamericane il ruolo della donna si è modificato prima nell'ambito socioeconomico e poi nella cultura e quindi nella religione. Sono state le rivoluzioni, da quella francese a quella industriale a modificare la funzione sociale delle donne. C'è stata una lunga e tormentata storia della nascita dei diritti femminili, che ancora non possono dirsi, neanche in occidente, del tutto acquisiti, soprattutto quelli sostanziali.
L'interpretazione più retrograda del ruolo delle donne all'interno  dell'Islam è forte in paesi nei quali non c'è stata né rivoluzione industriale e né la necessità del lavoro diffuso delle donne.
Nelle nostre società è stata  la seconda guerra mondiale a modificare  i rapporti uomo donna nel mondo del lavoro, perché la necessità di sostituire gli uomini impegnati sui fronti di guerra ( un tipo di guerra certo diversa, meno tecnologica, di quelle che si combattono oggi) ha dato accesso alla indipendenza economica, prima  base dell'indipendenza femminile.
La ricchezza della Arabia Saudita, monarchia assoluta nella quale vige come legge solo la Sharia, non è basata su una economia manifatturiera, ma sullo sfruttamento delle risorse. L'industria petrolifera impiega molta  manodopera straniera, non sembra aver creato un ceto medio di servizi nei quali sia fondamentale anche il lavoro femminile. Così si crea  un corto circuito nel quale meno le donne lavorano, meno sono istruite, meno combattono per i loro diritti.
Sembra allora che non sia pensabile una evoluzione politica dei diritti femminili e di tutti i diritti della persona in questi stati governati secondo le leggi islamiche non a causa della religione, ma a causa, come sosteneva un certo Karl Marx, delle strutture economiche e quindi sociali.
Però non sembra così semplice capire la diversità tra i paesi musulmani e i paesi occidentali. E' facile fare confusione  tra il piano politico/economico e quello religioso/culturale-
Le notizie di questi giorni (la guerra dell'ISIS in Siria e  in Libia, gli attacchi terroristici in Danimarca)  portano di nuovo in auge commenti ostili all'Islam e ai musulmani.
Molti infatti reagiscono all'orrore delle immagini delle decapitazioni attaccando la religione dell'Islam, altri cercano di tenere conto delle sfumature tra i moderati e i "fondamentalisti", ma  rischiano forse in questo modo di non prendere una posizione più netta nei confronti di alcune comunità musulmane che non rispettano i diritti individuali e che quindi possono avvallare alcune motivazioni propagandistiche  dei terroristi e dell'ISIS.
Alcuni studiosi, tra i quali Franco Cardini, sostengono invece che le differenze tra Islam e Cristianità non sono poi così rilevanti e che in realtà la crisi attuale tra occidente e musulmani nasce dai vari tradimenti che il mondo delle democrazie occidentali ha perpetuato verso il mondo islamico: la questione palestinese, la spartizione dell'area araba tra le potenze coloniali,  l'abbandono dell'Africa alle multinazionali, senza supportare i processi democratici.
Mi sono posta molti  dubbi, perché rientro sicuramente tra coloro che cercano di non avere un pregiudizio contro la religione musulmana ed in genere contro le religioni.
Ma cercando di capire mi sono chiesta come mai le religioni stiano diventando di nuovo ideologie politiche così militanti, così onnicomprensive e come sia possibile che molti giovani occidentali, anche donne, o giovani di paesi che comunque sono vissuti in modo laico, si facciano coinvolgere, si lascino conquistare dal fascino del fondamentalismo.
C'è una contraddizione nel nostro modo di pensare tra un principio di relativismo culturale, che cerca di accettare sullo stesso piano tutti i valori delle diverse culture e/o religioni, e un principio che difende comunque alcuni valori, come quelli  della persona,   come centrali, migliori, assoluti.
L'Islam appare come una religione che non accetta  i diritti individuali, nella sua ideologia è centrale la comunità, è alla comunità religiosa che si sottomettono i credenti, solo nella partecipazione alle leggi della comunità si è riconosciuti.
La Dichiarazione_islamica_dei_diritti_dell'uomo sottomette i diritti individuali alla legge islamica del Corano e della Sunna. La dichiarazione non prevede ad esempio la parità di diritti tra uomo e donna. E' stata elaborata proprio perché per alcune nazioni era impossibile aderire, per le differenze culturali basate sulla adesione alle leggi islamiche, alla Dichiarazione_universale_dei_diritti_umani dell'Onu.

Ad un interessante incontro della Associazione Metis e della Associazione Plinio Tammaro, "Mutamenti dell'anima e scenari del mondo", si discuteva della interpretazione dei recenti eventi politici e delle guerre nel medio-oriente alla luce delle teorie di James Hillman, psicoanalista junghiano che spesso si è occupato di leggere i fenomeni sociali attraverso gli archetipi. Durante il vivace dibattito tra i relatori (Eliana Belli, Maria Paola Moretti e David Tammaro) ed il pubblico sulle immagini della guerra, sull'intreccio tra gli aspetti sociali e i miti culturali e religiosi, sulla diversa appartenenza alla comunità nelle società musulmane od occidentali, sulla contrapposizione tra "noi" e "loro", su quanto si può rispondere all'odio della guerra di Marte con l'amore di Venere ho cominciato a pensare che potrebbero essere le donne a modificare l'Islam.  Sarebbe bello e significativo, come è successo in alcune primavere arabe,  che fossero loro a combattere perché venga riconosciuta la loro capacità e indipendenza, i loro diritti e così anche a modificare le comunità ed i paesi musulmani. Solo nella integrazione degli opposti, nella democrazia e nel confronto del dialogo si può trovare una via pacifica alla convivenza.

giovedì 12 febbraio 2015

Dell'insignificanza

Difficile essere delusa due volte di seguito da due autori che amavo molto, eppure mi è successo ancora. Dopo Houellebecq ora anche l'ultimo libro  di Kundera, La festa dell'insignificanza, mi lascia quantomeno insoddisfatta.
Kundera sembra l'ombra di se stesso: i tratti distintivi della sua poetica, il ruolo dell'ironia che smaschera le dittature, i giochi su quello che avrebbe potuto accadere, i personaggi che pensano e discutono di argomenti filosofici ed esistenziali, a partire dall'ombelico mostrato dalle giovani donne, sono solo pallide imitazioni dei suoi grandi libri. Peccato. L'insignificanza è l'essenza della vita, ma non della letteratura.

Chissà perché alcuni autori non mantengono il livello dei loro esordi, come se in fondo avessero solo alcuni grandi temi da affrontare e lo facessero in pochi libri, che colpiscono i lettori e segnano un periodo, e poi non riescono più ad evolvere e a trovare altri temi.
Forse ognuno di noi ha soltanto una costellazione di senso, una matrice di simboli, una storia da raccontare.
I grandi scrittori riescono a tradurre questa costellazione in uno o più libri, pochi in realtà.
Noi persone comuni viviamo la nostra storia e ci immergiamo nei simboli che ci circondano senza essere in grado di narrarli, se non a volte alle persone che amiamo, al compagno, ai figli.
Poi ci sono pochi grandissimi geni che riescono a far crescere la loro costellazione, vi aggiungono persone e personaggi, significati e interpretazioni nuove e fanno evolvere il loro mondo fantastico insieme al mondo, a volte anticipando il senso del mondo.

domenica 1 febbraio 2015

Sottomissione

Houellebecq è uno dei pochi autori contemporanei che considero davvero geniali. Eppure l'ultimo suo libro, uscito con un'incredibile sincronia con gli eventi dei quali  sembra parlare, non mi ha convinto su nessun fronte.
L'idea originaria può essere in effetti intelligente e stimolante. L'Europa e la Francia in particolare, potrebbero essere il campo di nascita di una forzata alleanza tra partiti islamisti e partiti di sinistra; in uno scenario che alcuni si esercitano ad immaginare, in chiavi più o meno terroristiche. Il suo sviluppo invece è povero e anche un po' scontato. Avrebbe potuto renderlo più ricco ed elaborato, sia in termini di intreccio che di personaggi.
Il personaggio principale  è sempre lui: insofferente, indolente, ossessionato dal sesso e misogino,  ma questa volta ancora più scontato e inconcludente, che si lascia trascinare, senza una vera riflessione su quanto gli succede. Tutto avviene velocemente, senza alcun acume, senza davvero che ci sia quel particolare insolito punto di vista che ha reso così geniali i suoi precedenti libri.
Manca completamente un personaggio femminile credibile, che possa contrapporsi o spiegare la conversione all'Islam. Che le donne si lascerebbero così facilmente condizionare, che rinuncerebbero completamente ai loro diritti, è difficile da immaginare e Houellebecq non ci prova nemmeno a farlo.
C'è poi il parallelismo con la narrazione della vita e  delle opere  di Huysmans, livello interessante per evidenziare l'involuzione di una  personalità e della civiltà moderna. Però, mi spiace ancora sostenerlo, non ci riesce in pieno.
Forse mi aspettavo troppo o forse è davvero un tema troppo complicato, però ad esempio nel suo libro La possibilità di un'isola c'era tutt'altra capacità visonaria e creativa.
Mi chiedo se non ci fosse stata la coincidenza con la tragedia del giornale Charlie Hebdo, quanta notorietà e distribuzione avrebbe avuto questo libro?

sabato 17 gennaio 2015

Cuori affamati

Ero curiosa di vedere il film di Costanzo, dopo aver letto che  trattava di una madre che non riusciva ad alimentare il figlio. Mi occupo spesso di Disturbi della alimentazione, anche nella prima infanzia. Non è un tema semplice da affrontare, quindi ero un po' scettica.
Il film è pieno di atmosfere angoscianti, anche se inizia con una scena davvero divertente.
Eppure quel modo così "corporeo" di avvicinarsi dei due protagonisti, in un bagno pubblico,  alle prese con una crisi intestinale di Jude, dà la cifra anche al resto della loro storia, che è soprattutto una storia di corpi: quello della madre, che anche in gravidanza non prende  abbastanza peso, quello del figlio, che non riesce a crescere, quello del padre, alto e magro, reso ancora più magro e allungato da riprese e da una fotografia che allungano e distorcono i corpi. Anche i colori e gli ambienti del piccolo appartamento, dal quale madre e figlio non escono per diversi mesi, sono distorti, innaturali.
Il rapporto tra naturale e artificiale è anche un'altra prospettiva della storia: Mina sostiene che gli alimenti che il pediatra vorrebbe dare al bambino sono veleno, e allo stesso tempo nutre il bambino in modo del tutto innaturale, con semi e olii depurativi.  Jude prova ad assecondarla, ma poi si accorge che suo figlio non sta bene, non cresce come dovrebbe e lo porta fuori per alimentarlo di nascosto.
Il regista da Fazio ed in altre interviste dice che sono personaggi che amano troppo.
Non sono d'accordo, non si tratta di amore eccessivo, si tratta di un vuoto d'amore.
Non dico che Mina non ami suo figlio, ma che il suo amore non riesce a riempirlo, perché lei stessa è vuota, ferita, angosciata di perderlo, ossessionata di purificarlo da una possibile minaccia.
Sempre più spesso incontro ragazze che nascondono il loro problema con il cibo, ma in realtà la croce di non riuscire ad amarsi, dietro la rivendicazione di una alimentazione sana. Allora dicono di non mangiare cereali come il grano perché fanno male, evitano del tutto la carne o i latticini perché vegane, si nutrono solo di semi e verdure. portano avanti ossessioni alimentari squilibrate ed incoerenti.
Cercano una purezza, una "verità", una "anima" da introdurre attraverso il cibo, o un "demone" da evitare per superare le paure, per sentirsi a posto.
Senza riuscirci. Come non ci riesce Mina.
Jude prova a fare quello che succede a molti familiari di persone ossessionate: assecondano, discutono, alla fine si ribellano e sono costretti a mettere in atto comportamenti scorretti.
Il film è bello perché non giudica, non riduce i protagonisti a "malati", racconta solo la loro storia e lo fa con atmosfere e immagini, più che con le parole.
Solo sul finale avrei qualche dubbio, però forse non poteva che finire così.

domenica 4 gennaio 2015

Bilancio delle letture dell'anno

Una volta, quando ero giovane (eh si, ormai posso dirlo) alla fine di ogni anno facevo un bilancio di quello che era successo,  leggevo tutto il diario che tenevo e provavo a fare una sintesi degli aspetti positivi e negativi. Dopo qualche anno, alle soglie della  maturità, mi resi conto che era una impresa abbastanza complicata, perché non mi soddisfaceva mai del tutto e mi lasciava una sorta di amarezza e delusione.
Da adulti si comprende la vita non si fa incatenare in bilanci e che rispondere alla domanda su cosa ti è piaciuto e cosa ti ha deluso non è esente da dolori, da ripensamenti e sensi di colpa. Quindi si smette di chiederselo. (La tentazione dei giovani di modificare la vita viene sopraffatta dalla forza che ha la vita di modificarti.)
Molto più semplice risultano i  bilanci del film più bello o del libro più bello.
Quindi direi che nel 2014 ho letto quattro  libri che possono classificarsi come i migliori: American tabloid di James Ellroy, Stoner  di John Williams, L'incolore Tazaki Tsumuru e i suoi anni di pellegrinaggio  di Murakami Haruki e Il cardellino di Donna Tart.
Sono  libri molto diversi tra loro.
American tabloid è un racconto tra la realtà e la finzione degli anni della avventura kennediana, la prospettiva è  data dalle figure minori, dai protagonisti in ombra,  quindi  il ritratto dei personaggi  diventati delle icone (i Kennedy, il capo della Cia, L. H. Oswald) si rivela  meno piatto e a tratti sorprendente, quando non completamente opposto alla mitografia corrente. Il gioco tra elementi reali ed elementi di finzione è così ben articolato che riesce a coinvolgere, emozionare, disgustare.
Stoner è la storia di un uomo normale, che vive  una professione non scelta, si tiene lontano dalla guerra, insegna senza passione e vive  un amore che diventa "un senso di remota pietà, amicizia riluttante e rispettosa consuetudine", ha una figlia che ama teneramente. Solo due eventi  lo mettono in crisi: uno studente che lo attacca e una studentessa della quale si innamora. Muore: "Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato.". E' un libro che ha appassionato molti, eppure, nonostante qualche perla nella scrittura e la capacità di avvicinare un personaggio ostico, mi ha meno emozionato degli altri.
Murakami è per me ormai una certezza: la sua scrittura così diversa e la capacità di narrare storie sempre originali al confine tra la realtà e la irrealtà, tra la depressione e l'amore dolente per la vita, con personaggi "incolori", ma vividi mi affascina ogni volta. Murakami scrive in fondo sempre dello stesso tema, sempre dell'amicizia, dell'amore, della morte, sempre della tentazione di un abisso in cui gettarsi e della decisione di non farlo.
Infine ho letto Il cardellino, che ha vinto il premio Pulitzer per la sezione romanzi. E' una storia sul desiderio di perdersi insieme al proprio dolore: un tredicenne scampa ad un evento terribile ma perde la madre. Inizia un peregrinare tra famiglie di amici, la famiglia del padre e della sua compagna, la famiglia della vittima della esplosione, che Theo ha visto morire accanto a lui. Tutto portando con sé un quadro, il pegno dell'amore della madre, della forza della bellezza di fronte alla distruzione.
"Nella misura in cui il quadro è immortale (e lo è), io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte di quella immortalità. Esiste; e continuerà ad esistere. E io aggiungo il mio amore alla storia delle persone che hanno amato le cose belle, e se ne sono prese cura, e le hanno strappate al fuoco, e le hanno cercate quand'erano disperse, e hanno provato a preservarle e a salvarle intanto che, letteralmente, se le passavano mano in mano, chiamando dalle rovine del tempo la successiva generazione di amanti, e quella dopo ancora.".
Nella misura in cui la letteratura è immortale, io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte di quella immortalità.
E infine nella misura in cui l'amore è immortale, io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte di quella immortalità.
E' il più bello delle mie letture del 2014.