venerdì 17 aprile 2015

Meditazione mindfulness V. Per uscirne bisogna passarci in mezzo.

Ho finito di leggere un bel libro sulla meditazione, sul buddismo e la psichiatria, La lezione della serenità. L'autore è uno studioso, uno psichiatra statunitense, che è anche un buddista, Mark Epstein.
L'aspetto interessante della sua analisi è il tentativo di leggere la figura del Buddha ed il suo messaggio come il frutto della elaborazione del trauma della perdita della madre.
Tale elaborazione si compie  attraverso gli anni nei quali  il principe Siddharta ricerca una soluzione alla consapevolezza del dolore della esistenza, prova varie pratiche e filosofie ascetiche, ma alla fine sotto l'albero della Bodhi raggiunge l'illuminazione. Il ricordo di un momento di gioia della sua infanzia, un momento nel quale Siddharta sembra  recuperare uno stato di unione con la madre perduta, dissociato dal momento del suo trauma, sembra essere la radice che permette di osservare e tollerare la sofferenza del mondo.
Il trauma provoca  una dissociazione delle emozioni catastrofiche dallo stato di coscienza attuale. A volte anche alcuni stati primitivi di de-sincronizzazione nella relazione tra la madre ed il neonato, secondo alcune odierne scuole psicoanalitiche, possono provocare stati emotivi che vengono dissociati.
Seguendo uno studioso, lo psicoanalista Philip Bromberg, autore di Clinica  del trauma  e della dissociazione, si potrebbe dire che  il modello che il Buddha propone come metodo della consapevolezza  consiste nel riuscire a stare negli spazi tra i Sè dissociati.
Nel frattempo le mie meditazioni sono diventate più regolari, ormai riesco a meditare quasi tutti i giorni, ho cominciato con quindici minuti al giorno, ora sto cercando di meditare per mezzora, perché mi accorgo che solo dopo un certo tempo, se supero il flusso continuo dei pensieri e li lascio scorrere, riesco a concentrarmi solo sul respiro e su una sorta di suono interiore.
E' diventato molto più facile immergersi nel flusso di consapevolezza, al punto che anche durante il giorno, se qualcosa mi irrita, mi rende inquieta, mi basta ricordarmi del mio respiro, ritornarvi per un attimo, per interrompere l'inquietudine, per distanziarmene. Non dico che quindi mi è sempre possibile superare le emozioni negative, però almeno è più facile identificare quali sono le emozioni, gli stati, le sensazioni, i sentimenti che sto provando. Poi posso anche rimanere, anzi in certi momenti non c'è altra soluzione che rimanere, con  quella emozione, però con  consapevolezza e chiarezza mentale. Come recita una massima buddista "per uscirne bisogna passarci in mezzo".
Anche la psicoterapia in fondo insegna qualcosa di molto simile: non è possibile evitare la nostra sofferenza, distogliere perennemente lo sguardo da ciò che ci ferisce, cercare in ogni modo, più o meno nevrotico, di evitare i pensieri, i ricordi, i nostri stati traumatizzati. Per trovare una soluzione è necessario passarci in mezzo, accettare di analizzare, ricordare, stare con quelle emozioni, stare in mezzo al conflitto, alla mancanza, alla ambiguità.
Anche la psicoterapia, quando è condotta senza eccessivo coinvolgimento del terapeuta, cioè senza che il terapeuta abbia già pronte delle risposte, lascia al paziente uno stato di attenzione libera e fluttuante nella quale è lui stesso e solo lui a trovare una risposta ai suoi dilemmi. Quello che succede spesso però in alcune psicoterapie è che le parole più superficiali, le razionalizzazioni, occupano molto spazio, troppo rispetto al flusso di coscienza spontaneo del paziente.
La tecnica della meditazione Mindfulness permette di creare all'interno di se stessi uno spazio nel quale il flusso dei pensieri, delle emozioni  e delle sensazioni può scorrere ed autosservarsi.
Perché nessuno può garantirci la felicità in questa vita, neanche la serenità, se non siamo disposti ad attraversarla in ogni momento di tristezza, gioia, disperazione o esaltazione con partecipazione consapevole e distaccata.
E' un principio semplice da dire, ma molto più complesso da mantenere: si dice "vivi ogni momento come fosse l'ultimo", perché è facile capire l'immensa fragilità della nostra esperienza.
Ma poi giorno per giorno ci attacchiamo ai nostri desideri, alle passioni, anche alla nostra frustrazione  e sofferenza, come se fossero assolute.
Nelle mie meditazioni un pensiero che torna spesso è la perdita di Matilde, ovviamente. Molte volte questo pensiero si associa alle lacrime, che lascio scorrere. Ma più frequentemente Matilde dona una luce di relativismo a tutto il resto, diventa come un metro col quale misurare ogni preoccupazione, ogni angoscia, mi ricorda incessantemente che tutto quello per cui mi posso preoccupare giorno dopo giorno non è nulla di fronte al ciclo delle vite e delle morti nel quale siamo tutti inseriti. Mi fa sperimentare, nella ferita che si rinnova, la necessità di apprezzare tutto e allo stesso tempo di non attaccarmi a nulla di quello che vivo.