mercoledì 23 agosto 2017

La vita immaginata. Biografie, autobiografie, diari.

Premessa intima
Sto da tempo pensando a (e tentando di)  scrivere una biografia di Matilde. Inevitabilmente si intreccerebbe con il racconto della mia vita, con quella di Valeria, di Osvaldo, dei miei familiari.
Quindi spesso mi interrompo, mi fermo a riflettere sul senso che può avere scrivere storie impregnate dei ricordi e delle emozioni di così tante persone, che ancora vivono accanto a me.
Sul senso che avrebbe per me, per cui la scrittura è sempre stata la principale cura, se non l'unica, e il modo nel quale ho affrontato, fin da adolescente,  dilemmi e tristezze, non ho dubbi.

Nel fermarmi a riflettere incontro racconti di altre vite.

"Gli  anni", di Annie Ernaux, autobiografia  di una generazione.
L'intento è chiaro fin dalle prime pagine, dense di oggetti e di piccoli e grandi eventi, che marcano il susseguirsi degli anni. Il racconto si svolge in prima persona plurale. La scelta stilistica, noi guardavamo, noi compravamo, coinvolge il lettore, più o meno coetaneo, lo rende protagonista, attiva i suoi personali ricordi. Ci si riconosce. Ogni tanto l'autrice descrive una propria fotografia, come un momento nel quale inserire la propria storia, attraverso il racconto di una immagine, che non viene mostrata. Una sorta di disincarnazione della propria presenza. Se i primi ricordi impersonali sono brevi, con il passare degli anni diventano più articolati, implicano riflessioni sulla società ed il costume, sulla politica e l'informazione dei media. Si dispiegano in giudizi complessi, rimanendo all'interno della cifra generazionale. Come se a parlare fosse un intero gruppo, la classe del 1940.

"Il porto di Toledo", di Anna Maria Ortese, autobiografia immaginaria.
Appare come un ossimoro, invece autobiografia immaginaria lo è fin nel profondo il romanzo della Ortese, che richiama la Napoli dei quartieri spagnoli, che interseca vicende reali trasfigurate e passioni durature, come l'amore per la scrittura. L'architettura di  ogni frase, anche quando rischia di apparire antiquata, diventa essa stessa protagonista. Seguire la lingua, le parole assonanti, il suono e il ritmo, le immagini visionarie, come una poesia romanzata, risulta contemporaneamente facile e impegnativo. Si ha l'impressione che non si voglia davvero descrivere, ma soltanto dare una suggestione della propria esperienza, in modo da darle vita attraverso la fantasia, invece che con i dettagli. Non è importante cosa è successo, ma come lo si è sentito e quindi anche immaginato.

"Caduto fuori dal tempo" di David Grossman, diario di un lutto.
Grossman ha atteso sei anni prima di scrivere e pubblicare un libro che riguardasse la perdita del figlio. Dopo tre giorni aveva scritto una lettera di addio bellissima (orazione funebre ). Nella lettera si rivolge al figlio, gli parla come se fosse ancora con lui. Nota che ogni frase che gli rivolge inizia con una negazione. L'universalità di alcuni meccanismi mi ha turbato, anche io avevo scritto una lettera a Matilde, anche io avevo scritto un elenco di quello che non avrebbe fatto.
Il libro piuttosto che raccontare il  lutto di un padre (grossman sullo scrivere il lutto )  mette in scena il percorso necessario al dolore. Mentre lo leggevo, in un unico lungo pomeriggio in treno, vedevo le immagini della ricerca del luogo inaccessibile del figlio, osservavo gli incontri con i viandanti enigmatici, sentivo le parole come se fossero recitate. Mi immaginavo un teatro buio, una scena scarna, i personaggi vestiti di grigio, il colore della polvere, le parole a riempire il vuoto. Il centauro-scrivania è nel suo studio e gli altri sono in movimento sul palco, dei movimenti circolari, senza scopo, senza sosta.
Il lutto è prima di tutto silenzio. Ogni parola pronunciata sembra quasi un'offesa, una arroganza nei confronti di un evento impronunciabile. (Le persone ti dicono di non avere parole e tu rispondi che non ci sono parole.)

Ma uno scrittore deve trovare parole, uno scrittore in lutto non ha altra possibilità che tornare a scrivere.

Ovviamente io non sono una scrittrice. Sono solo una persona che usa la scrittura come un modo per approfondire i pensieri che le circolano in mente, oppure per districare i nodi di inquietudine nei quali si avviluppa. Se mai riuscissi a dipanare la vita immaginata di Matilde, vorrei che non fosse solo quello che è stato, ma quello che avrebbe potuto essere e quello che si sarebbe immaginata che fosse. Quello che noi abbiamo amato e sentito di lei e quello che altri hanno vissuto e riconosciuto. Un'impresa così difficile, da risultare improbabile.


martedì 4 aprile 2017

Vite degli anni 80 che non sono la mia.

In questi giorni chiusa in casa ho avuto modo di guardare molti film. Tra i canali a pagamento e lo streaming in rete la scelta è ampia. Amo ancora andare al cinema, la visione in sala dà altre emozioni (tranne se si ha dietro un masticatore instancabile di popcorn o un commentatore tuttologo).
Mi sono tornati in mente gli anni ottanta, quando ho cominciato a frequentare il cinema.
A Grosseto non c'erano molte sale, insieme ai miei amici andavamo spesso al cinema Europa, nella zona nuova della città. Il posto all'esterno appariva un po' squallido, un brutto casermone squadrato. A volte ci nascondevamo negli antri grigi  se dovevamo fare salino a scuola. All'interno però c'erano specchi e divanetti per l'attesa e ben due sale, con comode poltrone. A me piaceva di più la sala due, perché era piccola e raccolta, quasi una sala privata. Solo a volte capitava di prendere in affitto qualche videocassetta, negli ultimi anni del liceo, quando i miei genitori comprarono il videoregistratore.
Oggi il cinema Europa è stato trasformato in una banca, non saprei dire se il posto si presta di più per un simile scopo.
Spesso arrivavano solo i film più famosi. In effetti anche oggi, nonostante la multisala, molti film, soprattutto italiani, non vengono proiettati... tra i film finalisti al David di Donatello, soltanto due sono passati a Grosseto.
Il primo film  che  ricordo di aver visto  è  Il tempo delle mele. Ero piccola, forse frequentavo ancora le scuole medie.
Non un grande film: lo ricordo perché fu una delle prime volte in cui mi sentii muovere le budella all'idea di un bacio.  Ho impressa nella memoria la scena in cui i due protagonisti ballano  con le cuffiette, non saprei neanche ricostruire l'intera storia del loro innamorarsi, rivivo solo la mia reazione viscerale. E' un'età strana quella dei 13-14 anni. Alcuni ragazzi precorrono le tappe oggi. Allora si era davvero ancora quasi bambini, ma la sensazione che qualcosa di bello e grande e forte potesse arrivare a sconvolgerti c'era già.
Christiane F. Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino ha rappresentato la scoperta della tossicodipendenza. In quegli anni  Grosseto ne girava molta, io non frequentavo nessuno che ne facesse uso, in realtà frequentavo  poche persone. Il film quindi mi proiettò in una dimensione che mi sembrò allo stesso tempo molto distante e molto vicina. Sentivo parlare di persone che si "facevano", ma non sapevo nulla su quello che succedeva a chi usava delle droghe. Il film fu come uno schiaffo, non tanto per le informazioni che dava, ma per l'angoscia che mi suscitò. La canzone di Bowie rimase indissolubilmente associata al film.
Se dovessi individuare un film che mi ha cambiato nel profondo in quegli anni direi sicuramente La scelta di Sophie. La storia ci colpì così tanto che divenne un modo di interrogarci reciproco,  ogni volta che si trattava di confrontarsi con svolte impegnative, con domande definitive. Noi pensavamo che quasi tutto fosse definitivo e fondamentale. Ogni nuovo amore, ogni relazione d'amicizia, ogni tradimento che poteva stare in qualche lieve scostarsi dalla linea del gruppo o dalla intimità costruita in pomeriggi e serate passate a discutere. Ci piaceva tormentarci con domande che mettevano a confronto il livello della lealtà o dell'amore: verso i genitori, tra i familiari, tra gli stessi amici. Chi salveresti? E le risposte non erano mai banali, mai buttate per caso, potevano ferire.  Ci ferimmo e perdonammo, forse.
Discutemmo moltissimo de Il grande freddo, ci sembrava impossibile che la nostra amicizia sarebbe diventata qualcosa di diverso da quello che vivevamo, che ci saremmo lasciati, che la vita ci avrebbe cambiato. Invece è successo. Saperlo già da allora non  ha reso più facile il distacco.
Rusty il selvaggio fu un innamoramento vissuto in solitudine:  mi piacevano i ragazzi belli e difficili, tristi e irraggiungibili. Non tanto il protagonista giovane Matt Dillon, quanto lo sfuggente Mickey Rourke, con la sua moto. Poi però mi sono fidanzata con un ragazzo che sicuramente non era così. Stranezze della gioventù. Film bellissimo  non solo per gli attori, grande fotografia e una colonna sonora indimenticabile ( Don't box me in di Stewart Copeland!).


L'ultima pietra miliare della mia crescita, negli anni del liceo,  è stato  C'era una volta in America, visto una sera d'estate e rimasto impresso per giorni e giorni. Era il momento in cui si stava avvicinando la maggiore età, la scelta dell'Università, si stava chiarendo dentro ognuno di noi il percorso che avremmo voluto fare. Eravamo davvero vicino al prendere direzioni diverse. Quanto diverse? Quanto era importante avere successo? Quanto invece rimanere fedeli a se stessi ed ai propri amori? Era conciliabile amare appassionatamente qualcuno senza  rinchiuderlo e "buttare via la chiave"?
Erano domande con un ventaglio  di risposte, in quel momento, apparentemente,  illimitate.
Attraverso i personaggi di questi film e di altri, casomai più vecchi, come C'eravamo tanto amati, abbiamo esplorato alcune di queste possibilità, abbiamo potuto amare e odiare, ci siamo sentiti falliti e abbiamo creduto che tutto fosse perduto, poi ci siamo potuti riscattare, abbiamo sperimentato la delusione e la rabbia, abbiamo lottato e ci siamo feriti. A volte siamo anche morti.
A ripensarci oggi, che il ventaglio si è ristretto, provo una grande tenerezza ed ancora però la stessa passione di vivere vite che non sono la mia. Con la consapevolezza che non lo saranno, senza rimpianti (o solo un po').




domenica 12 marzo 2017

Marinelli già lo amavo, Fabio Mollo l'ho scoperto.

Il 2017 è partito molto bene per la mia cinefilia:

Paterson è un film sulla poesia, in cui la parola è una protagonista, anche dal punto di vista visivo. Le parole scorrono sullo schermo, in lingua originale, si sovrappongono alle immagini, cercano un loro posto. Le parole, che il protagonista non usa molto nelle sue interazioni con gli altri, sono invece il punto centrale della sua vita quotidiana: mentre guida, mentre osserva, mentre ascolta la moglie, le parole ritornano e si sistemano in versi, trovano il posto e danno un posto alle sue esperienze e alle sue emozioni.

Animali notturni è un film sulla vendetta più che sull'amore. La scena iniziale, che  non si concilia molto con il resto del film, è però quella che ha un impatto maggiore. Sconvolgente e accattivante, mette in ridicolo i nostri pregiudizi. Mentre la osservavo pensavo che di nudi così non se ne vedono mai sui nostri media. Vale da sola tutto il film.

Silence è un film sul proselitismo, sullo scontro tra culture, direi, più che sulla religione. Una bellissima fotografia mostra un Giappone inedito, con una natura spaventosa almeno quanto le pratiche terribili della tortura. Ma mi ha lasciato un senso profondo di incompiutezza, nonostante il tentativo di rendere la profondità della fede, coltivata nel silenzio,  il contrasto con la messa in scena della violenza mi è apparso eccessivo.

Il cliente è un film sulla vergogna nella coppia. Perché  è la vergogna che impedisce di parlarsi, è la vergogna che spinge a cercare la soddisfazione di una riparazione. La messa in scena de La morte di un commesso viaggiatore fa da controcanto, come in un film di Truffaut. Non mi sorprende che abbia vinto l'Oscar.

Su Arrival ho già scritto e non sto a ripetermi (arrival-il-tempo-che-ritorna.html).

Ma  Il padre d'Italia, di Fabio Mollo, è finora il film più bello.

Gli attori, in primo luogo: Luca Marinelli mi aveva già fatto innamorare nel film Tutti i santi giorni, poi ha dato una prova bellissima in Non essere cattivo, fino a vincere ogni mio dubbio nel ruolo dello Zingaro, ne Lo chiamavano Jeeg Robot.  Ha una capacità eclettica di trasformarsi, a volte è quasi difficile riconoscerlo da un film  all'altro.
Nel film di Mollo interpreta un ragazzo  che viene lasciato dopo otto anni dal suo compagno, contrario all'adozione per i gay: una recitazione senza alcun tratto, finalmente, caricaturale, che non segue nessun clichè. Sembra un ragazzo come tanti, triste e introverso, ma con il coraggio di farsi travolgere da una strana, esuberante ragazza incinta.
Isabella Ragonese l'avevo scoperta nel film stupendo di Luchetti La nostra vita, accanto a Elio Germano, in un ruolo simile a quello che interpreta in Il Padre d'Italia. Riesce ad essere una ragazza inquieta, senza dover troppo caricare, marcare la sua "pazzia". Ha a volte dei silenzi improvvisi molto intensi. La scena ripresa fuori dal finestrino della macchina è magica.

Il regista, Fabio Mollo,  mi era invece del tutto sconosciuto, ho letto che ha già fatto alcuni corti e lungometraggi, che ora andrò a cercare.
E' calabrese e già questo mi piace.
Come tutti i meridionali è ossessionato dal viaggio al sud: la coppia si incammina in una ricerca, secondo Paolo, del vero padre della bambina e secondo Mia.... non si sa.
Però Mia arriva a casa, dalla madre. Intanto anche Paolo continua a sognare sua madre e si ferma a trovare chi l'ha cresciuto.
Ci sono tante storie, tanti sviluppi che si possono rintracciare, ma il regista non difende nessuna tesi, non  vuole dimostrare, ma mostrare. Accenna, segue i personaggi nel loro sviluppo, inquadra solo alcuni tagli, spesso asimmetrici, decentrati. Quando è necessario, solo strettamente necessario, inquadra gli occhi azzurrissimi di Marinelli o il viso spigoloso della Ragonese.
Parla di assumersi la responsabilità, di fuggire dalle responsabilità. Racconta le scelte di chi vuole un figlio e la legge non lo permette, e di chi lo ha ma non sa come crescerlo. Segue in Paolo il desiderio di diventare un padre, con delicatezza, con intensità, senza giudicare nessuno.
Un film che non ha tesi e che andrebbe fatto vedere a chi invece di tesi ne ha fin troppe, sul "gender", sull'essere "bravi" genitori.
Non vi anticipo la bellissima battuta con cui si chiude, perché forse ho già spoilerato troppo a chi non lo ha ancora visto,  ma vale la pena sentirla.

Ieri avevo visto anche un altro film, su Sky, La grande rabbia, di Claudio Fragasso. Ecco lo cito solo per dire che invece questo è un film a tesi, che oltretutto è recitato anche male: la storia della periferia di Tor Sapienza, degli scontri tra la polizia, che difendeva gli immigrati, e i cittadini, intrecciata alla storia di una amicizia tra un italiano bianco e uno nero, di destra. L'idea sarebbe anche interessante, se non fosse appunto così scontata, così "dimostrativa". I dialoghi, le scene, lo stesso intreccio erano già prevedibili dall'assunto iniziale, perfino dal titolo. Peccato.

sabato 18 febbraio 2017

Il ragazzo di Lavagna.

Ogni volta che vedo la notizia di un suicidio di un adolescente non posso fare a meno di leggere gli articoli, i commenti.
Cerchiamo una spiegazione, molto spesso una o più responsabilità, molti giudicano o interpretano.
E' comprensibile.
Il suicidio è sempre un gesto sovversivo, scandaloso, inconcepibile.
Il suicidio di un adolescente lo è mille volte di più.
Tutti ci sentiamo coinvolti,ci sembra che i legami che formano le nostre piccole vite, il senso  che ogni giorno diamo allo svegliarsi, all'alzarsi dal letto, allo svolgere i compiti quotidiani, tutte le azioni che abitiamo senza consapevolezza, improvvisamente perdano la loro spaventosa ovvietà.
Basterebbe pochissimo per infrangere la scontatezza del nostro vivere.
Ad un ragazzo  basta un semplice velocissimo impulso.
La vergogna, la paura, la delusione.
Ed un volo da un piano alto.
Poi vengono i tentativi di comprendere e di spiegare, che però assomigliano troppo a dare la colpa a qualcuno.
Lo so per esperienza, i primi a cercare la  colpe sono i genitori.
Nel caso del ragazzo di Lavagna, del quale non sappiamo neanche il nome, e definiamo suicida, con tutto lo stigma che questa definizione porta con sé, il padre si è subito accusato di non averlo capito.
La madre ha detto di essere stata lei ad aver chiamato la Guardia di Finanza, per proteggerlo ovviamente, credendo di spaventarlo e fermarlo dall'uso delle droghe che faceva.
Su queste due semplici notizie si stanno facendo illazioni, deduzioni, indagini.
Si danno giudizi, ci si schiera pro o contro.
In fondo siamo in Italia, dove il vero sport nazionale è  creare contrapposizioni radicali.
Ci sono anche giuste considerazioni politiche sul senso di proibire o legalizzare le droghe "leggere".

Io ho i conati di vomito.
Mi sento male.
Riesco solo a sentire il dolore, il dolore dei genitori, degli amici, di chi lo conosceva e lo amava.
Il mio dolore e il dolore di chi come me ha perso un figlio in questo modo assurdo.
Penso: fermatevi, smettetela.
Anche gli psicologi, anche gli psichiatri, i sociologi, smettetela.
I giornalisti, le persone comuni che su Facebook commentano, parlano come se sapessero di dialogo con i figli, di educazione, di metodi per capirli, della loro esperienza con le droghe.
Smettetela.
Non lo sapete, non sapete niente.
Non sapete cosa significa rivivere ogni giorno ogni istante tutto quello che si poteva fare e non si è fatto, che si poteva dire e non si è detto.
Oppure quello che si è fatto e detto  e dopo non si sarebbe più voluto fare o dire, ma non si può tornare indietro. Senza sapere quale è stato l'errore, senza riuscire a rintracciare esattamente l'azione e la parola, perchè ogni azione e parola ne ha un'altra concatenata ed ogni storia parte da lontano e non ha un'unica strada. Non c'è mai un solo svincolo decisivo.
Non lo sappiamo noi.
Non lo sapete voi.

Lasciamo che i genitori, i familiari, gli amici  rivivano con le persone di cui si fidano quanto è successo, lasciamo che siano loro a comprendere, a darsi un senso, per quanto è possibile farlo.
Facciamo un passo indietro, facciamo silenzio.

domenica 29 gennaio 2017

Arrival, il tempo che ritorna.

Ho visto tanti bei film in questo mese, non mi capitava da tempo di iniziare un nuovo anno con tante scelte, e così interessanti. Ma ne parlerò un'altra volta.
Perché oggi ho visto Arrival, di Denis Villeneuve, e ne sono uscita toccata.
Il film racconta di un incontro tra alieni e terrestri, ma non si tratta di banale fantascienza, non ci sono battaglie, né armi laser, né tecnologie sconvolgenti.
Arrivano dei grandi gusci neri, si vedono dietro uno schermo dei tentacoli e poi si formano delle parole, o meglio delle frasi, circolari. Una linguista ed un fisico tentano di decifrarle, per cercare di capire come mai gli alieni sono arrivati e cosa vogliono.
Mentre tutti si aspettano di capire qualcosa di quello che sta succedendo, si dipana anche la storia della linguista, il suo privato dolore, le sue scelte.
Sono memorie? Sono anticipazioni?
La sceneggiatura mantiene la sincronicità tra i due livelli, mentre nel mondo le grandi nazioni si interrogano sulle stesse questioni, ma prendono posizioni diverse, che rischiamo di mettere a rischio la sopravvivenza di tutti.
I fraintendimenti sono possibili, la  capacità di capire  i messaggi è ostacolata  dall'ambiguità così alta. Non ci pensiamo spesso, ma uno dei presupposti della comprensione umana è quello di condividere lo stesso corpo, lo stesso ambiente. Mangiare è una delle parole più facile da mostrare e da poter comprendere, ma come si comunica con una specie che ha un corpo diverso dal nostro, con il quale probabilmente non condividiamo nessun tipo di esperienza sensoriale?
Eppure si parte dai sensi, quelli più primordiali: Louise mostra le sue mani.
Anche gli alieni mostrano le loro estremità in  un gesto simile: attraverso il vetro, ancora una volta, si ripete il gesto che unisce le mani di Adamo e  di Dio (citazione di Michelangelo o di E.T. di Spielberg?).
Capire una lingua è immergersi in un altro mondo.
Per una sorte di strana sincronia proprio stamani ascoltavo una puntata di "La lingua batte", su Radio Tre, che affrontava il tema della neurolinguistica. Nell'intervista a Andrea Moro si parlava del mistero delle lingue impossibili: se si insegna una lingua artificiale, con delle regole diverse da quelle già geneticamente inserite nel nostro cervello, le strutture cerebrali che si attivano non sono le stesse che usiamo quando parliamo la lingua madre.

Se si comprende una lingua parlata da una specie diversa si può anche entrare nella sua percezione del mondo? Louise comprendendo la lingua capisce ad un certo punto che la dimensione del tempo è diversa per gli alieni e che il vero scopo non è offendere, ma offrire una opportunità.
E se nel proprio tempo è accaduta una tragedia come cambia la percezione dell'evento, come si può immaginare di riviverlo o anche di modificarlo?
Louise si immerge nella nebbia aliena e cerca delle risposte, rivivendo o forse presagendo il suo destino. Ma mancano anche le parole, a noi che siamo abituati a percepire la linea del tempo, non sappiamo come descrivere la circolarità, il ritorno dello stesso. L'immagine che mi è venuta in mente è l'archetipo del serpente che si morde la coda, richiamata, non so quanto consapevolmente, dalla scrittura aliena.
Le immagini essenziali, quasi monocromatiche, del contatto con gli alieni, il montaggio del regista riescono forse solo in parte a rendere questo concetto, quindi nell'ultima parte del film  c'è una maggior ricorso ad una spiegazione esplicita, che fa perdere forse un po' di forza espressiva.
Però sono uscita con le lacrime agli occhi: in un mondo dove il tempo è circolare la morte può non esistere, si può anche accettare il proprio destino, e ripeterlo, e ripeterlo.

domenica 8 gennaio 2017

Classifica dei film del 2016, privata e opinabile, come al solito.



Nell'anno appena trascorso ho visto più film del solito, però meno nelle sale cinematografiche e più a casa, su Sky, Netflix, Google Play, e già questo dato potrebbe essere importante. Forse perché vivo in una città di provincia dove non c'è molta scelta (ma quando sono a Roma o Firenze ho l'impressione che anche l'offerta delle grandi città non sia così varia) trovo più conveniente scegliere i film dalle varie piattaforme online o dai canali in abbonamento. Mi rendo conto che tale preferenza determina un ulteriore caduta del pubblico delle sale, ma credo che sulla distribuzione dei film dovrebbe essere fatta una riflessione e una politica più ampia.

Ho avuto l'opportunità di vedere e apprezzare molti bei film grazie ai corsi di cinema organizzati da Fondazione Cultura Grosseto con Mario Sesti e Giovanni Bogani oppure per merito della partecipazione, come giurata e spettatrice, al Clorofilla Film Festival, grazie a Simonetta Grechi.

L'offerta che ho trovato nelle sale non è stata all'altezza dei film che ho scoperto grazie a queste iniziative, quindi il mio giudizio ne risentirà sicuramente.



1) A pari merito metto al primo posto La pazza gioia di Virzì e Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti, per la scelta di protagonisti fuori dagli schemi, che viaggiano tra il dramma e la comicità, cercando una soluzione all'esistenza cruda e piatta, con quel pizzico di fantasia e follia che fa desiderare di essere, una volta nella nostra vita, come loro.

2) Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese avrebbe potuto partecipare dello stesso giudizio se non fosse che il finale normalizza troppo l'intreccio, mentre la storia si poteva mantenere sulla rottura e lo svelamento delle normali ipocrisie dei nostri giorni.
3) Julieta di Almodovar pur avendomi in qualche modo deluso (le-donne-di-virzi-e-quelle-di-almodovar.html ) si piazza lo stesso al terzo posto, perché Pedro è sempre Pedro, anche quando sceglie di filmare un racconto che forse non appartiene del tutto alle sue corde. Il suo punto di vista sul rapporto madre figlia vale comunque la visione del film.
4) Non essere cattivo di Claudio Caligari è stata una sorpresa molto gradita, in particolare per l'ambientazione, la luce e gli scorci delle periferie disperate. La prova attoriale di Luca Marinelli è notevole.

5) Fai bei sogni di Marco Bellocchio: mi è piaciuta sia la storia di Gramellini che la prova di Mastrandrea, la regia non brilla.

6) Fuocoammare di Gianfranco Rosi, un bel docufilm, con una fotografia intensa.





7) The end of the tour di James Ponsold si merita il settimo posto perché è la storia di David Foster Wallace, un autore che amo moltissimo, anche se l'attore scelto per interpretarlo lo conoscevo per una serie Tv molto famosa, quindi ho avuto qualche difficoltà a dargli credibilità.

8) Suffragette di Sarah Gavron è interessante come ricostruzione delle lotte femministe, un film didattico, infatti ho portato con me mia figlia, ma non lo ha apprezzato.

9) Bella e perduta di Pietro Marcello è un film troppo "visionario" per i miei gusti, non è riuscito a coinvolgermi, pur apprezzando il tentativo di fare un film tra il documentario di denuncia e la ricostruzione di una atmosfera mitica.

10) Neruda di Pablo Larrain: avendo visto altri film di questo regista mi aspettavo un film diverso, invece questa storia mi è sembrata troppo didascalica. Un Neruda più politico che poeta.

11) La corrispondenza di Giuseppe Tornitore davvero un film inutile, incompleto, inconcludente, peccato, è uno dei miei registi preferiti.