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sabato 21 aprile 2018

Anna Karenina e L'idiota, ovvero del M5S e del PD.

Dalla mie recente immersione nella cultura russa  traggo alcuni spunti di riflessione sul presente della politica.
Il ragionamento è un po' contorto, ma breve.
Ho letto Anna Karenina, era da tempo che me lo ripromettevo.
Mi ha coinvolto non tanto la vicenda sentimentale tra Anna e Vronskij, che già conoscevo attraverso i vari adattamenti cinematografici, ma la seconda storia, l'amore tra  Levin e  Kitty.
Tolstoj attraverso il suo alter ego Levin  racconta un percorso di riflessione filosofica e morale sul matrimonio e soprattutto sull'idea di giustizia, su modelli sociali e politici. Contrappone la visione di una natura e della vita in campagna come ordinata e sostanzialmente serena, ad una descrizione della vita sociale in città piena di intrighi e immoralità.
Anche Dostoevskij ne L'idiota non parla solo dell'amore del principe Myskin per Natalia e Aglaja. Rappresenta una idea di un mondo di relazioni complicate, nelle quali solo il sacrificio di una persona fondamentalmente ingenua può provare a rendere giustizia a chi è stato offeso.
I due protagonisti, Levin e Myskin, rappresentano due idee di bontà: una bontà illuminista versus una bontà tragica.
La bontà della ragione e la bontà del conflitto.
Una visione di un mondo potenzialmente ordinato e giusto, contro una visione del mondo complicato e in mano al caos.
Il conte Levin riflette, si perde nel mondo corrotto della città, sembra essersi ritirato e rifugiato nel mondo bucolico e  nella sua delusione, ma poi torna al suo unico vero amore, Kitty.
La povera Anna che non riesce a capire cosa prova ed a dare un ordine alle sue passioni è destinata a perdersi nella relazione con Vronskij, viene tradita e sceglie di punirsi. Il bene e il male sono chiari, definiti, la giustizia trionfa.
Il principe Myskin agisce le sue emozioni, si schiera a difendere Natalia, ma in realtà ama Aglaja, tenta di portare armonia e giustizia tra i suoi amici e invece viene travolto dal disordine delle passioni. Non trova il modo di vivere il suo amore ed è lentamente trascinato in un destino contrario. Voleva fare il bene, ma risulta un ingenuo perdente.
Mi sembra che si delineino due visoni profondamente diverse.
Se il mondo è ordinato e fondamentalmente buono, naturalmente buono, si può sperare (ma a volte pretendere) che prima o poi ci sia una conciliazione e l'attuazione della bontà, in terra o nei cieli.
Se il mondo è un caos di dolore incontrollato (come ci dice D.W.Foster) si può solo operare per facilitare il minore dei mali possibili, tentare la mediazione tra i contrasti, accontentarsi di un risultato parziale.

Levin è vicino alla sinistra totalitaria, al cattolicesimo dell'Inquisizione che condanna, ai vari fanatismi idealisti, come il Movimento 5 Stelle.
L'idiota sembra la sinistra socialdemocratica,  incastrata nei conflitti e a volte nelle scelte di fede irrazionali,   spesso perdente, come il PD.



mercoledì 23 agosto 2017

La vita immaginata. Biografie, autobiografie, diari.

Premessa intima
Sto da tempo pensando a (e tentando di)  scrivere una biografia di Matilde. Inevitabilmente si intreccerebbe con il racconto della mia vita, con quella di Valeria, di Osvaldo, dei miei familiari.
Quindi spesso mi interrompo, mi fermo a riflettere sul senso che può avere scrivere storie impregnate dei ricordi e delle emozioni di così tante persone, che ancora vivono accanto a me.
Sul senso che avrebbe per me, per cui la scrittura è sempre stata la principale cura, se non l'unica, e il modo nel quale ho affrontato, fin da adolescente,  dilemmi e tristezze, non ho dubbi.

Nel fermarmi a riflettere incontro racconti di altre vite.

"Gli  anni", di Annie Ernaux, autobiografia  di una generazione.
L'intento è chiaro fin dalle prime pagine, dense di oggetti e di piccoli e grandi eventi, che marcano il susseguirsi degli anni. Il racconto si svolge in prima persona plurale. La scelta stilistica, noi guardavamo, noi compravamo, coinvolge il lettore, più o meno coetaneo, lo rende protagonista, attiva i suoi personali ricordi. Ci si riconosce. Ogni tanto l'autrice descrive una propria fotografia, come un momento nel quale inserire la propria storia, attraverso il racconto di una immagine, che non viene mostrata. Una sorta di disincarnazione della propria presenza. Se i primi ricordi impersonali sono brevi, con il passare degli anni diventano più articolati, implicano riflessioni sulla società ed il costume, sulla politica e l'informazione dei media. Si dispiegano in giudizi complessi, rimanendo all'interno della cifra generazionale. Come se a parlare fosse un intero gruppo, la classe del 1940.

"Il porto di Toledo", di Anna Maria Ortese, autobiografia immaginaria.
Appare come un ossimoro, invece autobiografia immaginaria lo è fin nel profondo il romanzo della Ortese, che richiama la Napoli dei quartieri spagnoli, che interseca vicende reali trasfigurate e passioni durature, come l'amore per la scrittura. L'architettura di  ogni frase, anche quando rischia di apparire antiquata, diventa essa stessa protagonista. Seguire la lingua, le parole assonanti, il suono e il ritmo, le immagini visionarie, come una poesia romanzata, risulta contemporaneamente facile e impegnativo. Si ha l'impressione che non si voglia davvero descrivere, ma soltanto dare una suggestione della propria esperienza, in modo da darle vita attraverso la fantasia, invece che con i dettagli. Non è importante cosa è successo, ma come lo si è sentito e quindi anche immaginato.

"Caduto fuori dal tempo" di David Grossman, diario di un lutto.
Grossman ha atteso sei anni prima di scrivere e pubblicare un libro che riguardasse la perdita del figlio. Dopo tre giorni aveva scritto una lettera di addio bellissima (orazione funebre ). Nella lettera si rivolge al figlio, gli parla come se fosse ancora con lui. Nota che ogni frase che gli rivolge inizia con una negazione. L'universalità di alcuni meccanismi mi ha turbato, anche io avevo scritto una lettera a Matilde, anche io avevo scritto un elenco di quello che non avrebbe fatto.
Il libro piuttosto che raccontare il  lutto di un padre (grossman sullo scrivere il lutto )  mette in scena il percorso necessario al dolore. Mentre lo leggevo, in un unico lungo pomeriggio in treno, vedevo le immagini della ricerca del luogo inaccessibile del figlio, osservavo gli incontri con i viandanti enigmatici, sentivo le parole come se fossero recitate. Mi immaginavo un teatro buio, una scena scarna, i personaggi vestiti di grigio, il colore della polvere, le parole a riempire il vuoto. Il centauro-scrivania è nel suo studio e gli altri sono in movimento sul palco, dei movimenti circolari, senza scopo, senza sosta.
Il lutto è prima di tutto silenzio. Ogni parola pronunciata sembra quasi un'offesa, una arroganza nei confronti di un evento impronunciabile. (Le persone ti dicono di non avere parole e tu rispondi che non ci sono parole.)

Ma uno scrittore deve trovare parole, uno scrittore in lutto non ha altra possibilità che tornare a scrivere.

Ovviamente io non sono una scrittrice. Sono solo una persona che usa la scrittura come un modo per approfondire i pensieri che le circolano in mente, oppure per districare i nodi di inquietudine nei quali si avviluppa. Se mai riuscissi a dipanare la vita immaginata di Matilde, vorrei che non fosse solo quello che è stato, ma quello che avrebbe potuto essere e quello che si sarebbe immaginata che fosse. Quello che noi abbiamo amato e sentito di lei e quello che altri hanno vissuto e riconosciuto. Un'impresa così difficile, da risultare improbabile.


sabato 16 luglio 2016

De Il cerchio, della trasparenza e dei segreti (e del M5S).

Quando ero ragazza c'è stato un momento nel quale mi sono sentita così vicina ai miei amici, così integrata nel cerchio dei nostri affetti reciproci, che pensavo che la trasparenza dei nostri pensieri e delle nostre anime, la completa condivisione di emozioni, desideri e paure, non fosse altro che una splendida opportunità.
Tra persone che si amano e si rispettano, pensavamo e dicevamo e cercavamo di mettere in pratica, non c'è niente di più bello che condividere.
I social network non esistevano ancora, ma noi passavamo insieme molto tempo a parlare e discutere sulle nostre letture, i film, lo studio, le amicizie, la famiglia, insomma su tutto quello che è la vita di un adolescente. Era bello pensare che non c'erano filtri tra noi, che tutto poteva essere affrontato, anche quando si trattava di emozioni come la gelosia o la competizione o la vergogna. Fu il momento nel quale aprii i miei diari segreti, anche le pagine degli sfoghi più puri, alle lettura dei miei amici, convinta che potevano sapere e comprendere.
Il libro di Dave Eggers Il Cerchio mi ricorda quel periodo.
Racconta di un futuro molto vicino nel quale i rapporti umani sono ormai del tutto condizionati da un'unico social  network privato, il Cerchio appunto, al quale tutti sono connessi, non solo per il loro divertimento, ma per lavorare, per gestire  la sicurezza  del proprio quartiere, alla fine addirittura per votare. Le  videocamere funzionano a energia solare, sono sempre attive e  ovunque, possono prevenire colpi di stato (vedi quello che è successo stanotte in Turchia), possono dissuadere dal compiere atti criminali.
Il Cerchio ha bandito l'anonimato degli account e emarginato i troll e coloro che nascondevano la propria identità, è in grado di rintracciare ogni evento significativo della vita dei singoli e tiene costantemente aggiornate le classifiche degli smile e dei frown per ogni profilo, per ogni attività. Gli slogan inneggiano ad una totale trasparenza: i segreti sono bugie, solo condividendo ogni angolo della propria esperienza  ci si può prendere cura uno dell'altro, e se non si è disposti a farlo si commette una trasgressione nei confronti della società.
Non è difficile immaginare che questo conduca ad una forma di controllo totalitario. Mi sono preoccupata perchè, proprio in questi giorni, Google mi sta chiedendo se può unire i dati del mio blog con quelli dell'account Google + ,  non è così inverosimile che già abbia chiaro un quadro delle ricerche e  anche dei miei post pubblici su FB.
Eggers  a mio avviso è geniale nel rappresentare il modo in cui  a questo controllo totalitario ci stiamo tutti sottoponendo in modo volontario, coltivando una ideologia della trasparenza della quale non si notano i limiti e i vincoli. Descrive, attraverso una protagonista che sale progressivamente nella gerarchia del network fino a diventarne l'immagine di punta, il modo nel quale tutto questo processo possa essere convincente e condurre ad una adesione quasi universale.
In una delle scene più coinvolgenti, uno dei soci fondatori del  Cerchio intervista la protagonista che ha commesso una lieve infrazione, documentata da una delle videocamere del network. Vuole dimostrare che la trasparenza "panoptica" è l'unica strada percorribile e indurla ad indossare una videocamera che riprenda e trasmetta in tempo reale ogni sua giornata. Mae si fa convincere: aderire ad un gruppo che pensa di essere sempre dalla parte della ragione, che esalta i successi e sembra perdonare gli errori (a patto che vengano riconosciuti ed espiati) rende sicuri e fa sentire amati.
Per questo mi sono ricordata del nostro periodo "totalitario", che in realtà ebbe una fine abbastanza rapida, e passammo dal gruppo come unica fonte di riconoscimento  a dinamiche  conflittuali. Non ho più fatto leggere i miei diari.
Secondo alcuni autori della psicoanalisi interpersonale (Fonagy Target 1996) la capacità di riflettere sulla propria mente nasce nel momento in cui siamo capaci di nascondere una parte di noi, dei nostri pensieri, alla mente degli altri. Il bambino comprende che tutti abbiamo una mente quando comincia a raccontare bugie, per cui si accorge che la madre non ha il potere di sapere se lui sta mentendo. Il segreto e la bugia, così come il gioco e la finzione, hanno un valore evolutivo, possono essere la base del primo modo di riflettere su se stessi. Quindi della nostra identità.
Se la trasparenza diventa la regola la mia identità viene cancellata.
Ma se l'ideologia della trasparenza prende il sopravvento, in nome della sicurezza, come sta ad esempio avvenendo di fronte al terrorismo, se cerco di nascondermi, se mantengo privato il mio mondo di pensieri ed emozioni,  divento un sospetto.
C'è una idea "geniale" nel libro  che proporrei ai politici del M5S: indossare sempre una videocamera, per documentare la purezza di ogni contatto con i colleghi, con i cittadini e con  eventuali sponsor che volessero avvicinarli per corromperli.  Proverebbero irrefutabilmente di essere diversi da tutti gli altri partiti. Nel libro di Eggers alla fine tutti i politici si piegano a questa innovazione. Chissà se non ci hanno già pensato alla Casaleggio SPA.



giovedì 7 gennaio 2016

Della difficoltà di sorprendersi.Bilancio delle letture dell'anno 2015


Il segno degli anni che passano si avverte quando  l'esperienza del rimanere sorpresi o affascinati comincia a diventare più rara.
A volte anche la ricerca di esperienze del passato, che si ricordano influenti e coinvolgenti, può essere deludente.  Quando si prova a ricreare la sensazione dell'avventura che si  è vissuta leggendo un libro magnifico, che ci ha aperto riflessioni e considerazioni sull'esistenza, sulle relazioni umane, sulla politica, sulla psicologia e sull'amore, un libro che abbiamo commentato insieme agli amici più cari e discusso con l'insegnante mentore della nostra adolescenza, un libro come  La montagna incantata di Thomas Mann (diventata magica nella  nuova traduzione di Renata Colorni) e si scopre invece di annoiarsi nelle lunghe riflessioni filosofiche, di trovare i personaggi un po' troppo statici e di scoprire che il filosofo Naphta con il quale mi immedesimavo un po', per polemica con il mio più caro amico, che invece difendeva Settembrini, ci appare triste e patetico,  allora  si avverte che gli anni della giovinezza sono davvero lontani.
Allora scegliere le letture e gli autori dell'anno diventa meno immediato, più elaborato.
Alcune importanti delusioni sono stati gli ultimi scritti di  Kundera, Dell'insignificanza e di Houellebecq, Sottomissione,  (qui kundera e qui sottomissione  i motivi della mia disapprovazione) alle quali forse aggiungerei anche Yehoshua, con La comparsa, che ho letto in questo ultimo mese. Yehoshua racconta il ritorno di una musicista, una suonatrice d'arpa, a Gerusalemme, per aiutare il fratello a prendersi cura della madre. Per lei rappresenta l'occasione per riconsiderare le sue scelte, mentre aspetta la decisione della madre e lavora come comparsa in alcuni spettacoli. Però qualcosa di questa storia rimane in sospeso, troppo accennata e irrisolta. Il registro di Yehoshua è quello di rimanere nella quotidianità, nella assenza di drammaticità, ma questa volta il piano narrativo si trova in un'area grigia, piatta.
Mentre la quadrilogia de  L'amica geniale di Elena Ferrante mi è piaciuta molto: la storia della amicizia tra le due protagoniste mi ha tenuto impegnata per alcuni mesi.  (ne parlo qui elena ferrante ) L'ultimo libro, Storia della bambina perduta, è stato inserito dal New York Times nei 10 miglior libri del 2015.
Si tratta di un racconto di formazione dalle note nostalgiche, credo che sia entrato in sintonia con la riconsiderazione della mia formazione, della giovinezza, di ciò che poteva essere e di ciò che invece è stato, delle relazioni che sono state significative, di quelle che invece avrebbero potuto esserle e che invece sono state dimenticate, interrotte, disciolte.
Almeno  Marias con Così ha inizio il male  non è stato una delusione, anche se non è certo il livello di altri suoi libri. La cifra stilistica del ragionamento psicologico, la narrazione che spiega le premesse e le catene dei pensieri e le conseguenze delle decisioni dei personaggi, in una sequenza fluida di periodi a volte lunghissimi, in alcune pagine non rende a pieno l'intensità della storia, ed io lettrice mi interrogavo su quando si sarebbe avuta la svolta che tali ragionamenti presupponevano. Però ad un certo punto la rivelazione avviene e tutto l'intreccio acquista un senso salvando il romanzo in una sorta di ultima chance.
Ma quello che ha davvero risollevato il mio anno di lettrice è stato il fascino dei racconti  sull'Est Europa.
Il Nobel della letteratura a una giornalista scrittrice, Svetlana Aleksievic,  che in questi ultimi anni ha indagato la realtà dell'ex impero sovietico con spirito critico, è una di quelle coincidenze che a volte mi  capitano. All'interno del mio mondo di letture ce ne sono state diverse che parlano direttamente o indirettamente della storia della Russia e dell'est europeo nel XX sec. Limonov di Carrere , Vita e Destino di V. Grossman. ed  anche Tempo di seconda mano della Aleksievic.
Non so come mai amo tanto la Russia, forse il mio amore è cominciato da Dostoevskij, nell'anno in cui sono riuscita a leggere tutte le sue opere e sono andata in  viaggio  a Mosca e a San Pietroburgo.
Il più bello tra questi è sicuramente Vita e destino. Nelle prime pagine si fatica ad orientarsi e si ha bisogno di una guida, una traccia che spieghi chi sono e dove vivano i personaggi. Poi però tutto si fa più chiaro e fluente e si inzia a comprendere che il senso del racconto non sta in un'unica storia, ma nel parallelismo delle varie vicende, che a volte sono davvero solo di poche pagine. Ci sono personaggi che appaiono per un solo episodio, altri che invece seguiamo dal'inizio alla fine di una vicenda un po' più lunga, ma l'autore non si sofferma ad indagare psicologicamente solo uno di questi personaggi. E' come se volesse davvero riuscire a rendere contemporaneamente tutte le sfumature infìnite delle vite che si sono manifestate in quegli anni di guerra.In Russia sono gli anni dell'affermazione dello stalinismo e poi dell'assedio di Stalingrado, ma c'è spazio anche per i campi di concentramento nazisti e per la descrizione della vita dei soldati, da quelli semplici ai maggiori, dagli eroi agli ipocriti, dai nemici tedeschi ai russi e agli ebrei.
E' un romanzo di popolo che va oltre le barriere del solo popolo russo, è un romanzo corale, un vasto affresco dell'umanità. Non è comparabile ad un ritratto rinascimentale, ma ad un affresco del Masaccio, con l'intera gamma umana, dai nobili ai popolani. Narra il ciclo delle vite e delle morti, che a volte hanno un senso ed a volte invece appaiono oscure, senza luci e significati, ma che fanno parte comunque del destino della umanità.
Quindi il mio bilancio assegna a pari merito una menzione di libro dell'anno a L'amica geniale e a Vita e destino.
Nel Museo Donnaregina di Arte Contemporanea  a Napoli c'è una installazione video di David Robbins "TV family", una sorta di soap opera di arte contemporanea, nella quale due attori di "Un posto al sole", insieme ad altri attori di teatro, attraverso una sceneggiatura da serie televisiva conversano di filosofia (UPAS al MADRE).  I dialoghi surreali, perchè non realistici, ma allo stesso tempo profondamente veri, perchè presentano le questioni dell'esistenza di ognuno, che intavolano gli attori, a me così familiari, della serie UPAS, mi sembrano adatti a chiosare questo mio bilancio. Teresa/Carmen Scivittaro dice a sua nipote: passiamo il tempo a soffrire per amore, ma  l'amore è solo un modo per continuare la nostra specie.

martedì 25 agosto 2015

Elena Ferrante e la smarginatura del femminile


Ci sono libri che toccano qualcosa di profondo in noi, che non si riesce subito a capire e ci vuole tempo per elaborare. Ho letto i quattro volumi de L'amica geniale, come faccio sempre quando una lettura mi appassiona, tutti di seguito, nel mese di maggio. Ho pensato di scrivere qualcosa, ma mi ci sono voluti mesi per rifletterci.
Intanto la Ferrante non ha vinto il premio Strega.
Intanto ho letto un altro libro di psicoanalisi infantile, Il dramma del bambino dotato, un libro di Alice Miller, psicoanalista controversa, che si è allontanata dalla società psicoanalitica in polemica sulla teoria dei traumi infantili, perchè sostiene che i bambini sono oggettivamente maltrattati, sia fisicamente che psicologicamente, e che questa è la radice del malessere sociale nel quale tutti viviamo. Mentre  la psicoanalisi considera con cautela  la realtà del trauma psichico, dando maggior spazio alle fantasie infantili ed alle angosce, considerate primarie, della nostra esistenza.
La Miller sostiene che le madri, in particolare, creano un rapporto patologico con i propri figli, un rapporto nel quale riversano il disprezzo, come una  rivalsa delle ferite ricevute della loro infanzia.
Oppure le madri  si vendicano  nel rapporto con i figli  del rinnovato dolore che suscita la trascuratezza o la violenza  del compagno, anch'egli ferito, sempre, inevitabilmente, da una madre.
Anche le relazioni del romanzo de L'amica geniale sono relazioni piene di violenza, di rancori, di gelosie e invidie, di rispecchiamenti e di simbiosi malate.
Però sono colme di sentimenti e di creatività e di rivalse che possono  ad un certo punto essere in qualche modo salvifiche. Ci sono traumi e tentativi di sollevarsi dal trauma, cadute e riscatti, incompiuti spesso. Ambivalenti spessissimo.

Lila scompare, non lascia tracce, non vuole essere trovata.
Allora Elena, Lenuccia, Lenù, scrive di lei, racconta la loro storia, la storia di una amicizia.
Nel leggere L'amica geniale si segue il filo del gioco doppio delle identità. Lenù  si confronta con il suo doppio Lila, nata il suo stesso anno, nello stesso mese, che vive nello stesso quartiere. Giocano con le bambole e Lila le butta la sua in uno scantinato buio dell'orco del condominio. Come in una favola le bambine vanno a cercare la bambola e non trovandola Lila ha il coraggio di bussare alla porta dell'Orco, ma prima prende per mano Lenù.
Cerca il coraggio? Vuole consolarla e incoraggiarla?
Comincia il gioco di specchi tra le due amiche.  Non si sa chi tra le due sia davvero l'amica geniale, l'amica che ha il Genius, l'ingegno, ma anche il demone che scombina le carte, che trasgredisce le regole.
Lila è coraggiosa, ma è anche cattiva, è capace di leggere e comprendere argomenti nuovi velocemente e in modo profondo, ma non porta a termine i suoi progetti e basta uno scatto di orgoglio ferito per buttare tutto all'aria. Lila la scarpara, la commerciante, la sposa invidiata, l'amante, l'operaria. la sindacalista, l'informatica. Lila che vuole solo non lasciare tracce, che critica il successo e spinge l'amica a trovare la sua strada.
Lila che ama, viene abbandonata e  tradita. Lila che viene di nuovo adottata da un amante modesto, ma fedele, Enzo.

Lenuccia ha una madre claudicante, che la controlla, la giudica e tenta di tenerla con lei, a scapito dei suo talento, una madre gelosa che si irrita per l'attenzione che la bambina suscita nella sua maestra, che le fa pesare i soldi per fare l'esame e passare alle scuole medie. L'esame che Lila non potrà fare.
Lena non vuole essere come sua madre, si allontana da lei e da Napoli (e da Lila) alla ricerca di un riscatto attraverso la cultura e la scrittura.

Le madri sono davvero il motore di tutto? Sono la radice dei traumi e dei riscatti? Hanno la colpa di aver generato e la colpa di essersi aspettate qualcosa dal frutto del loro grembo?
"Io ti ho fatto ed io ti sfaccio" dicono a volte ai loro figli..

Lena lascerà le sue bambine insiema al marito, tradito per stare con il suo amore, inseguito per una vita, lo stesso che aveva tradito Lila. Anche la protagonista de I giorni dell'abbandono, altro racconto della Ferrante, vive i figli come un peso, un ostacolo, anche la professoressa de La figlia oscura lascia le figlie al marito.
Invece Lila  "perde" la sua bambina, che scompare, forse rapita, forse uccisa. Un altro trauma della maternità. Madri che abbandonano, madri che soffocano, madri che cercano una soddisfazione nella vita delle figlie. Figlie che amano e detestano le proprie madri, che si allontanano, che scompaiono.

Entrambe le protagoniste sembrano rappresentare i conflitti dell'essere donne nella seconda metà del Novecento, la tensione verso la libertà dai ruoli della famiglia di origine, che si acquisisce solo
sposandosi, ma anche l'emancipazione attraverso lo studio, che porta Elena a conoscere il mondo del femminismo, mentre Lila si emancipa nel lavoro e nel ruolo di sindacalista. La difficoltà di conciliare il lavoro di cura dei figli con il proprio lavoro e le proprie ambizioni. Il tradimento  più grande sembra quello di essere indipendente dall'obbligo della maternità e dalla seduzione

Non è facile riuscire a rendere l'intreccio di tutti questi piani e temi, che si snodano lungo i quattro romanzi della Ferrante: i due assi che si intersecano, della costruzione della identità femminile e quello delle relazioni madre-figlia, uomo-donna, sono interconnessi e mobili allo stesso tempo e attraversano varie storie collaterali.

La perdita dei margini, la smarginatura, l'esperienza che trasforma la realtà di ogni giorno in una mondo che si scioglie, perde consistenza e senso, simboleggia forse la difficoltà di creare una identità femminile, materna, individuale e sociale per le due amiche.
Daltronde anche Elena Ferrante non c'è, al di là della sua scrittura non esiste, non è vista. (e proprio per questo suo nascondersi all'ineluttabile commento mediatico sul suo aspetto, sulla sua vita privata, penso che sia una donna).

Quindi credo  che avrebbe meritato di vincere il premio, lo Strega o un altro, perchè a differenza delle interpretazioni lineari che dà l'analista Miller, la Ferrante raccontando di donne si interroga sulle loro relazioni e sulla loro difficile identità di madri, spose, figlie, scrittrici, operarie, senza dare risposte, senza suggerire soluzioni, come ogni grande romanziere, che tenta di ricostruire la complessità della vita.

Per quello che riguarda me, invece, la riflessione che alla fine è emersa dalla lettura della Ferrante è che il compito più complesso è certamente  riuscire ad amare i figli per quelli che sono e non per quello che vorremmo che fossero, ma soprattutto, da figlie adulte, ad amare le madri così come sono e non per quelle che vorremmo fossero state.


giovedì 12 febbraio 2015

Dell'insignificanza

Difficile essere delusa due volte di seguito da due autori che amavo molto, eppure mi è successo ancora. Dopo Houellebecq ora anche l'ultimo libro  di Kundera, La festa dell'insignificanza, mi lascia quantomeno insoddisfatta.
Kundera sembra l'ombra di se stesso: i tratti distintivi della sua poetica, il ruolo dell'ironia che smaschera le dittature, i giochi su quello che avrebbe potuto accadere, i personaggi che pensano e discutono di argomenti filosofici ed esistenziali, a partire dall'ombelico mostrato dalle giovani donne, sono solo pallide imitazioni dei suoi grandi libri. Peccato. L'insignificanza è l'essenza della vita, ma non della letteratura.

Chissà perché alcuni autori non mantengono il livello dei loro esordi, come se in fondo avessero solo alcuni grandi temi da affrontare e lo facessero in pochi libri, che colpiscono i lettori e segnano un periodo, e poi non riescono più ad evolvere e a trovare altri temi.
Forse ognuno di noi ha soltanto una costellazione di senso, una matrice di simboli, una storia da raccontare.
I grandi scrittori riescono a tradurre questa costellazione in uno o più libri, pochi in realtà.
Noi persone comuni viviamo la nostra storia e ci immergiamo nei simboli che ci circondano senza essere in grado di narrarli, se non a volte alle persone che amiamo, al compagno, ai figli.
Poi ci sono pochi grandissimi geni che riescono a far crescere la loro costellazione, vi aggiungono persone e personaggi, significati e interpretazioni nuove e fanno evolvere il loro mondo fantastico insieme al mondo, a volte anticipando il senso del mondo.

domenica 1 febbraio 2015

Sottomissione

Houellebecq è uno dei pochi autori contemporanei che considero davvero geniali. Eppure l'ultimo suo libro, uscito con un'incredibile sincronia con gli eventi dei quali  sembra parlare, non mi ha convinto su nessun fronte.
L'idea originaria può essere in effetti intelligente e stimolante. L'Europa e la Francia in particolare, potrebbero essere il campo di nascita di una forzata alleanza tra partiti islamisti e partiti di sinistra; in uno scenario che alcuni si esercitano ad immaginare, in chiavi più o meno terroristiche. Il suo sviluppo invece è povero e anche un po' scontato. Avrebbe potuto renderlo più ricco ed elaborato, sia in termini di intreccio che di personaggi.
Il personaggio principale  è sempre lui: insofferente, indolente, ossessionato dal sesso e misogino,  ma questa volta ancora più scontato e inconcludente, che si lascia trascinare, senza una vera riflessione su quanto gli succede. Tutto avviene velocemente, senza alcun acume, senza davvero che ci sia quel particolare insolito punto di vista che ha reso così geniali i suoi precedenti libri.
Manca completamente un personaggio femminile credibile, che possa contrapporsi o spiegare la conversione all'Islam. Che le donne si lascerebbero così facilmente condizionare, che rinuncerebbero completamente ai loro diritti, è difficile da immaginare e Houellebecq non ci prova nemmeno a farlo.
C'è poi il parallelismo con la narrazione della vita e  delle opere  di Huysmans, livello interessante per evidenziare l'involuzione di una  personalità e della civiltà moderna. Però, mi spiace ancora sostenerlo, non ci riesce in pieno.
Forse mi aspettavo troppo o forse è davvero un tema troppo complicato, però ad esempio nel suo libro La possibilità di un'isola c'era tutt'altra capacità visonaria e creativa.
Mi chiedo se non ci fosse stata la coincidenza con la tragedia del giornale Charlie Hebdo, quanta notorietà e distribuzione avrebbe avuto questo libro?

domenica 4 gennaio 2015

Bilancio delle letture dell'anno

Una volta, quando ero giovane (eh si, ormai posso dirlo) alla fine di ogni anno facevo un bilancio di quello che era successo,  leggevo tutto il diario che tenevo e provavo a fare una sintesi degli aspetti positivi e negativi. Dopo qualche anno, alle soglie della  maturità, mi resi conto che era una impresa abbastanza complicata, perché non mi soddisfaceva mai del tutto e mi lasciava una sorta di amarezza e delusione.
Da adulti si comprende la vita non si fa incatenare in bilanci e che rispondere alla domanda su cosa ti è piaciuto e cosa ti ha deluso non è esente da dolori, da ripensamenti e sensi di colpa. Quindi si smette di chiederselo. (La tentazione dei giovani di modificare la vita viene sopraffatta dalla forza che ha la vita di modificarti.)
Molto più semplice risultano i  bilanci del film più bello o del libro più bello.
Quindi direi che nel 2014 ho letto quattro  libri che possono classificarsi come i migliori: American tabloid di James Ellroy, Stoner  di John Williams, L'incolore Tazaki Tsumuru e i suoi anni di pellegrinaggio  di Murakami Haruki e Il cardellino di Donna Tart.
Sono  libri molto diversi tra loro.
American tabloid è un racconto tra la realtà e la finzione degli anni della avventura kennediana, la prospettiva è  data dalle figure minori, dai protagonisti in ombra,  quindi  il ritratto dei personaggi  diventati delle icone (i Kennedy, il capo della Cia, L. H. Oswald) si rivela  meno piatto e a tratti sorprendente, quando non completamente opposto alla mitografia corrente. Il gioco tra elementi reali ed elementi di finzione è così ben articolato che riesce a coinvolgere, emozionare, disgustare.
Stoner è la storia di un uomo normale, che vive  una professione non scelta, si tiene lontano dalla guerra, insegna senza passione e vive  un amore che diventa "un senso di remota pietà, amicizia riluttante e rispettosa consuetudine", ha una figlia che ama teneramente. Solo due eventi  lo mettono in crisi: uno studente che lo attacca e una studentessa della quale si innamora. Muore: "Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato.". E' un libro che ha appassionato molti, eppure, nonostante qualche perla nella scrittura e la capacità di avvicinare un personaggio ostico, mi ha meno emozionato degli altri.
Murakami è per me ormai una certezza: la sua scrittura così diversa e la capacità di narrare storie sempre originali al confine tra la realtà e la irrealtà, tra la depressione e l'amore dolente per la vita, con personaggi "incolori", ma vividi mi affascina ogni volta. Murakami scrive in fondo sempre dello stesso tema, sempre dell'amicizia, dell'amore, della morte, sempre della tentazione di un abisso in cui gettarsi e della decisione di non farlo.
Infine ho letto Il cardellino, che ha vinto il premio Pulitzer per la sezione romanzi. E' una storia sul desiderio di perdersi insieme al proprio dolore: un tredicenne scampa ad un evento terribile ma perde la madre. Inizia un peregrinare tra famiglie di amici, la famiglia del padre e della sua compagna, la famiglia della vittima della esplosione, che Theo ha visto morire accanto a lui. Tutto portando con sé un quadro, il pegno dell'amore della madre, della forza della bellezza di fronte alla distruzione.
"Nella misura in cui il quadro è immortale (e lo è), io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte di quella immortalità. Esiste; e continuerà ad esistere. E io aggiungo il mio amore alla storia delle persone che hanno amato le cose belle, e se ne sono prese cura, e le hanno strappate al fuoco, e le hanno cercate quand'erano disperse, e hanno provato a preservarle e a salvarle intanto che, letteralmente, se le passavano mano in mano, chiamando dalle rovine del tempo la successiva generazione di amanti, e quella dopo ancora.".
Nella misura in cui la letteratura è immortale, io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte di quella immortalità.
E infine nella misura in cui l'amore è immortale, io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte di quella immortalità.
E' il più bello delle mie letture del 2014.

giovedì 5 settembre 2013

La vita è un caos di dolore insensato, o dello scherzo senza fine (Infinite jest).

La lettura del lunghissimo romanzo di David Foster Wallace, Infinite Jest, è stata essa stessa una storia. Ho iniziato a leggerlo nel 2010, quando ero in una fase particolare della mia vita, dopo la rottura di una relazione importante ed all'inizio di una nuova relazione d'amore. La complessità della scrittura di Wallace mi aveva intrigato, ma anche affaticato. Il libro non ha una struttura cronologica semplice, non solo perchè gli Anni Sponsorizzati non sono subito individuabili, ma anche perchè lo sviluppo delle scene non segue un ordine, neanche a volerlo immaginare come dei flash back. Il tempo di Infinite jest è ricorsivo, circolare, si annoda su se stesso. Una stessa giornata ritorna più volte, in momenti diversi, con protagonisti diversi  e nonostante gli sforzi per tenerne nota, alla fine si comprende che non c'è un ordine, ma solo una apparente sinconicità. Anche il legame tra i personaggi, tanti e diversi, e tra gli ambienti non è evidente nei primi capitoli, subito si avverte la necessità di avere una guida al romanzo, che sia da parte di qualcuno che l'ha già letto.
Infine il tipo di scrittura varia molto da scena a scena: ci sono dialoghi, elenchi, a volte essenziali, a volte lunghissimi. Ci sono abbreviazioni e iniziali che disorientano, termini colloquiali o troppo tecnici. Ci sono note che invece che agevolare la lettura la rendono ancora più articolata e complessa (ed ho spesso deciso di saltarle). Ci sono descrizioni che entrano nei dettagli di oggetti e di ambienti che si fatica a trovare significativi ed a volte diventano solo rumore di fondo. Mi sono trovata a leggere quasi come se navigassi in un mare di dettagli nei quali cercavo un orientamento, come se dovesse prima o poi arrivare un segnale che desse un ordine, ma senza riuscire ad approdare davvero da qualche parte. Poi all'improvviso dopo pagine di navigazione di lettura ecco una perla, una pagina entusiasmante, che illumina il percorso, ma senza davvero connetterlo in un unico senso.

Ho quindi deciso di lasciarlo, di sospenderlo, mi sono detta, per un po', come avevo sospeso la lettura di Proust, nell'attesa di trovare un momento giusto per riprenderlo. Poi, in un momento di nuovo molto particolare della mia vita, dopo la perdita atroce di mia figlia,  ho trovato la biografia di D.T.Max, che ha fatto rinascere una curiosità verso IJ.
Per riannodare i fili mi sono trovata a cercare in rete una sorta di bignami del romanzo ed ho trovato  sul sito Scarabooks una utilissima guida che ho utilizzato per non riprendere l'orientamento.
Poi piano piano non ne ho avuto bisogno e la mia lettura è stata sempre più facile. Le storie nella seconda parte del libro si intrecciano maggiormente, i personaggi principali sono più individuabili. Gli ambienti diventano familiari. Ho continuato a pensare che se Wallace avesse sacrificato una parte delle pagine che ha scritto il risultato sarebbe stato più unitario, ma poi, alla fine, mi è sembrato anche di percepire perchè potrebbe non averlo fatto.
Pur nella critica del realismo, pur situandosi quindi nella corrente postmoderna, Wallace sembra in realtà voler riprodurre con la iperrealtà della sua letteratura la complessità e caoticità della vita. La impossibilità di dare ordine, coerenza ai vari dettagli, di decidere cosa sia essenziale e cosa no, non fa parte in fondo delle nostre stesse esperienze? Cerchiamo inesorabilmente un ordine che siamo destinati a non trovare. Alla fine mi è sembrato di vedere questo nella sua sovrabbondanza di scrittura. Così come cerchiamo un piacere che non si riesce a trovare, la cassetta di Infinite Jest,  e che può solo portare ad una forma diversa di morte. Così come cerchiamo di combattere il dolore, ma rimaniamo impigliati nelle dipendenze da sostanze. Non c'è nulla in questo romanzo che salva, non c'è neanche l'amore, perchè anche l'Amore è una dipendenza.
"Iniziano la cosa con i bottoni uno dell'altro. Non c'entra la conquista o la cattura forzata. Non c'entrano le ghiandole o gli istinti o il brivido che spacca il secondo o il chiodo fisso di doverti lasciare andare; non c'entra neanche l'amore né l'amore per qualcuno che desideri dentro di te, dal quale ti senti tradito. Non c'entra l'amore e non è mai l'amore, che uccide chi ne ha bisogno." (pag.678 ed. Einaudi).
C'entra molto il dolore della Cosa: " La Cosa è un senso di male radicale e completo, e non è una caratteristica, ma piuttosto l'essenza dell'esistenza cosciente. la Cosa è un senso di avvelenamento che pervade l'io ai livelli più elementari. La cosa è una nausea delle cellule e dell'anima. E' l'intuire che il mondo è molto ricco e animato, ma anche completamente doloroso e maligno e antagonistico nei confronti dell'io" ( pag.834).
Alla fine del romanzo la cartuccia master del film che produce il piacere più assoluto, il piacere  che porta alla morte, non si trova; alla fine del romanzo, senza voler svelare troppo della vicenda, ci sono solo due dei protagonisti principali (Hal Incandenza e Don Gately) stesi e immobili a confrontarsi con il dolore della astinenza ed il dolore fisico di un trauma, attraverso i ricordi di altri traumi e di altri dolori.
In questo romanzo non  c'è catarsi, non c'è un vero sviluppo, la prima scena è quella che potrebbe essere cronologicamente l'ultima della storia, ma anche solo una invenzione. I personaggi rimangono nonostante tutto uguali a se stessi e imprigionati nei loro ruoli.
E la vita è solo un caos di dolore insensato, uno scherzo senza fine ( e forse ora, nel particolare mio momento di vita, sento una incredibile sintonia con IJ).

DFW, una biografia.

A volte succede che un autore sia amato più per il personaggio che  diventa che per quello che ha scritto. Con questo non intendo sostenere che non siano importanti le opere, ma che ad un certo punto, per qualche autore, la sua vita (o la sua morte) diventi più importante delle sue opere.
Ho amato moltissimo i Diari di Virginia Woolf, i suoi saggi di critica e di militanza per i diritti delle donne, ho divorato le sue biografie e ogni traccia di lei, i film che sono ispirati al suo personaggio o tratti dai suoi personaggi, ma non ho amato allo stesso modo le sue opere narrative, tranne forse per La signora Dalloway.

Quando  ho iniziato a leggere Infinite Jest, sono arrivata quasi a metà del libro e poi l'ho lasciato un po' esaurita, ma con l'idea di ritornarvi. Ho letto i racconti di La ragazza dai capelli strani e li ho trovati molto belli e più piacevoli dell'infinito romanzo. Poi ho visto una sua biografia, di D.T. Max, e mi ha incantato il titolo Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi.
Ho cominciato a leggerla e l'ho finita in pochi giorni: è una storia struggente, che parla di David Foster Wallace e dei suoi libri. Racconta la sua depressione ricorrente, ma anche le sue  teorie intorno alla scrittura, la filosofia dei suoi romanzi e le vicende che hanno ispirato le sue storie.
Rende reali il grande dolore ed il grande talento di Wallace. Mi ha fatto tornare il desiderio di leggere Infinite Jest e di completarlo con una consapevolezza diversa.
Penso che ora che ho più chiaro il disegno e la personalità di chi ha scritto questa opera mi riuscirà anche meglio portarne a termine la lettura. Sono consapevole che una parte di questa fascinazione è anche legata  al gesto del suicidio di David.
D.T.Max non avanza spiegazioni o ipotesi, racconta che DFW ha tentato varie volte di togliersi la vita e che in fondo ha sempre alternato momenti nei quali la scrittura sembrava un modo per non farsi risucchiare dal dolore, ad altri nei quali ha avuto bisogno di anestetizzarsi dal dolore con le droghe e l'alcool. Anche se aveva trovato attraverso gli AA ( ed uno psicofarmaco) un modo di gestire il dolore interno, intenso, l'inquietudine che non lo ha mai abbandonato, ed alla fine è stato più forte il pensiero di mettere un termine definitivo alla sua sofferenza, come Virginia Woolf.
Ma non è soltanto questo il fascino che ha suscitato in me la lettura della biografia, il tema convincente, direi motivante a riprendere i suoi romanzi, è stato quello della complessità della sua scrittura tra realtà e finzione, tra ultrarealtà e ironia. Il modo nel quale Wallace ha cercato di trovare uno stile che rendesse l'incredibile "troppità" della vita. Il biografo cita una sua lettera ad un amico nella quale Wallace racconta delle sue difficoltà: scrivere roba sulla vita vera è quasi impossibile, semplicemente perché è troppa!
Il sovraccarico di informazioni, di percezioni, di opinioni, di teorie e mezzi di comunicazione dell'età moderna produce spesso solo rumore nel quale è difficile estrarre i segnali. A volte leggendo Wallace si ha l'impressione che i suoi periodi lunghissimi siano in effetti solo questo rumore, dal quale ogni tanto si staglia una frase, un pensiero che risuona invece in modo diverso.

domenica 26 febbraio 2012

Il kindle e gli ebook.

All'inizio ero un po' diffidente nei confronti degli ebook. I libri mi piacciono molto anche perchè è bello tenerli in mano, sfogliarli, sentirne l'odore. C'è una differenza tra libri in brossura e libri pieghevoli (io preferisco i pieghevoli, più maneggiabili), c'è il piacere di vederli tutti allineati nella mia libreria, la soddisfazione che dà trovare nuovi modi di organizzarli, oppure lasciarli così un po' spersi tra i vari ripiani, senza ordine. Il libro è un oggetto che ha accompagnato tutta la mia vita. Quando è nata mia figlia Matilde una delle prime cose che le ho regalato è stato un piccolo libro su un anatroccolo, a forma di papera. Lei aveva tre mesi ed ovviamente lo "mangiava" più che guardarlo, ma era bello vederla con quel libro in mano (ed in bocca).





Quindi all'inizio gli ebook, con la loro mancanza di corporeità mi lasciavano indifferente. Non capivo l'utilità di avere un ereader e non pensavo che avrei scaricato gli ebook. Però piano piano mi hanno incuriosito. Prima ho cominciato a scaricarli sul computer. Poi ho cominciato a pensare di comprare un ereader. Mi sono informata ed ho cominciato ad interessarmi al Kindle, l'ho comprato ad un prezzo  accessibile ed ora ne sono  appassionata. E' piccolo, ma si legge bene, lo schermo non è retroilluminato e dà una impressione reale di pagina scritta. E' maneggevole e leggero, si possono archiviare moltissimi libri che si possono scaricare velocemente dal sito amazon.it. Si può navigare in internet con una connessione wi-fi, anche se certo le pagine sono visualizzate in bianco e nero e non come su un tablet. I libri disponibili sono molti, in questi giorni mi sono scaricata molti classici che ora sono gratuiti. Sono andata in vacanza ed ho potuto portare il kindle con una scelta di libri incredibile, prima era impensabile,  io leggo molto velocemente ed ero rimasta a volte senza libri da leggere. Poi me lo porto dietro quando devo aspettare in fila, quando aspetto mia figlia a lezione, quando ho delle pause nel lavoro. Insomma posso leggere ovunque e scegliendo anche il tipo di lettura. Posso evidenziare alcuni punti, aggiungere note e commenti e dare una valutazione sul libro e scegliere se renderlo pubblico. In conclusione il kindle mi piace molto e mi piacciono anche gli ebook. Questo non significa che smetterò di comprare i libri, perchè il loro piacere non è sostituibile, ma comprerò libri ed ebook. Le mie figlie probabilmente avranno più ebook che libri e forse per studiare potrebbe essere anche meglio. Ho sentito che in alcune scuole si sta pensando di sostituire i libri di testo con quelli digitali, oltrettutto per le famiglie sarrebe un notevole risparmio. Forse tra un po' dovrò comprarlo anche a loro.
p.s. non si tratta di pubblicità a pagamento!!! :)

sabato 4 febbraio 2012

Amo Stephen King

E' innegabile: King è uno scrittore avvincente. Riesce a catturare il lettore nella sua trama e tenerlo interessato e attento per pagine e pagine. Non ho mai letto libri di oltre mille pagine con la voracità con la quale leggo King. La sua scrittura a volte è molto bella, ma ciò che davvero tiene il lettore è l'intreccio, la capacità di delineare molti personaggi, di renderne vive le storie. E' un grande cantastorie, il tipo di letteratura che a me piace.
E poi è bravo a dipingere il Male, la sua onnipresenza, la sua banalità e grandiosità, anche quando sembra causato da qualche evento esterno ed estraneo, un essere soprannaturale o extraterrestre.
Il Male è il grande protagonista dei suoi romanzi, un male umano, molto umano. Un Male potente e grandioso, imprevedibile e feroce tiene in ostaggio a volte intere comunità, ma ne è anche il più amato rappresentante. In The Dome (La cupola), il romanzo che sto leggendo, King descrive la parabola di un eletto del popolo che sfrutta un disastro per diventare un tiranno, diventando un pluriassassino.
Anche i bambini sono personaggi molto amati da King, sono in genere coloro che hanno la capacità di vedere qualcosa che i grandi non vedono o non capiscono, in questo romanzo riescono a vedere il futuro ed uno di loro mostra capacità incredibili di strategia. King ha la capacità di entrare nel mondo dell'infanzia come se non se ne fosse mai allontanato.
Sono arrivata alle ultime 100 pagine e come al solito comincio a rallentare la lettura, dopo aver tanto corso, perchè so già che questa storia mi mancherà, che mi sono affezionata ai personaggi, perchè li vedo e li conosco come fossero miei compagni.
Però voglio finirlo, so che alla fine il Male verrà sconfitto, qualcuno sarò sacrificato e gli eroi saranno riconosciuti ed anche se è solo un romanzo questa certezza mi renderà per un po' più serena.