lunedì 23 settembre 2013

Meditazione mindfulness IV

In questo ultimo anno ho provato a meditare una volta sola, a dicembre del 2012, nel gruppo con alcune care colleghe. Ho pianto durante tutta la meditazione, il mio dolore traboccava, mi trascinava. La consapevolezza piena del momento presente non è facile da tollerare quando ogni momento è pieno di angoscia ed a volte l'unico modo di sopravvivere è quello di occupare la mente con distrazioni inutili.
Da qualche giorno invece ho ripreso a meditare ogni mattina, per 15 minuti.
E' un momento che mi prendo per cercare di stare ad osservare i miei pensieri senza farmene travolgere.
Una delle metafore più belle della meditazione è  quella del cielo attraversato da nubi. Mi immagino la distesa azzurra di un cielo limpido e alcune nuvole bianche che la attraversano, cambiando forme e colore, fino a che il cielo torna sgombro. A volte ci sono giorni nei quali le nuvole sono nere e gonfie di pioggia, ma anche in quel caso, dopo un po', il cielo torna limpido. I pensieri sono come le nuvole, che attraversano la mia mente,  posso riuscire a lasciarli andare, a non attaccarmi a loro, i pensieri vengono e vanno via.
Alla fine della meditazione non sempre mi sento più calma, anzi a volte mi rendo conto che attraverso l'osservazione dei miei pensieri ho portato a galla di nuovo le angosce che cerco di tenere lontano dalla mia consapevolezza.
Ma il punto è che continuare semplicemente a distrarmi da loro non è più funzionale. Ho passato un anno cercando di tenere il dolore sotto controllo, ora non solo lo avverto ancora, ma in certi momenti è come se al dolore si aggiungesse la stanchezza di gestirlo.
Soffro di non tollerare la sofferenza.
Allora la meditazione, forse, può aiutarmi ad accettare il dolore così come è, senza aggiungere i rimproveri e la stanchezza del fingersi a posto, quando non lo si è.
Può distinguere e aumentare la  coscienza della diversità tra alcuni tipi di sofferenza.
La meditazione della montagna è un altro tipo di "consapevolezza piena" che mi piace e mi aiuta. Sentirsi una montagna, immobile, inattaccabile, profondamente radicata ed insieme svettante. Una montagna che rimane attraverso le stagioni, che vive tutti i cambiamenti sulle sue pendici, rimanendo profondamente la stessa, ecco, quando mi vivo così, l'angoscia sembra più sopportabile.
Immagino la montagna che conosco meglio, la montagna Santa Croce, vicina al mio paese lucano, San Fele. Sono la montagna Santa Croce.

giovedì 5 settembre 2013

La vita è un caos di dolore insensato, o dello scherzo senza fine (Infinite jest).

La lettura del lunghissimo romanzo di David Foster Wallace, Infinite Jest, è stata essa stessa una storia. Ho iniziato a leggerlo nel 2010, quando ero in una fase particolare della mia vita, dopo la rottura di una relazione importante ed all'inizio di una nuova relazione d'amore. La complessità della scrittura di Wallace mi aveva intrigato, ma anche affaticato. Il libro non ha una struttura cronologica semplice, non solo perchè gli Anni Sponsorizzati non sono subito individuabili, ma anche perchè lo sviluppo delle scene non segue un ordine, neanche a volerlo immaginare come dei flash back. Il tempo di Infinite jest è ricorsivo, circolare, si annoda su se stesso. Una stessa giornata ritorna più volte, in momenti diversi, con protagonisti diversi  e nonostante gli sforzi per tenerne nota, alla fine si comprende che non c'è un ordine, ma solo una apparente sinconicità. Anche il legame tra i personaggi, tanti e diversi, e tra gli ambienti non è evidente nei primi capitoli, subito si avverte la necessità di avere una guida al romanzo, che sia da parte di qualcuno che l'ha già letto.
Infine il tipo di scrittura varia molto da scena a scena: ci sono dialoghi, elenchi, a volte essenziali, a volte lunghissimi. Ci sono abbreviazioni e iniziali che disorientano, termini colloquiali o troppo tecnici. Ci sono note che invece che agevolare la lettura la rendono ancora più articolata e complessa (ed ho spesso deciso di saltarle). Ci sono descrizioni che entrano nei dettagli di oggetti e di ambienti che si fatica a trovare significativi ed a volte diventano solo rumore di fondo. Mi sono trovata a leggere quasi come se navigassi in un mare di dettagli nei quali cercavo un orientamento, come se dovesse prima o poi arrivare un segnale che desse un ordine, ma senza riuscire ad approdare davvero da qualche parte. Poi all'improvviso dopo pagine di navigazione di lettura ecco una perla, una pagina entusiasmante, che illumina il percorso, ma senza davvero connetterlo in un unico senso.

Ho quindi deciso di lasciarlo, di sospenderlo, mi sono detta, per un po', come avevo sospeso la lettura di Proust, nell'attesa di trovare un momento giusto per riprenderlo. Poi, in un momento di nuovo molto particolare della mia vita, dopo la perdita atroce di mia figlia,  ho trovato la biografia di D.T.Max, che ha fatto rinascere una curiosità verso IJ.
Per riannodare i fili mi sono trovata a cercare in rete una sorta di bignami del romanzo ed ho trovato  sul sito Scarabooks una utilissima guida che ho utilizzato per non riprendere l'orientamento.
Poi piano piano non ne ho avuto bisogno e la mia lettura è stata sempre più facile. Le storie nella seconda parte del libro si intrecciano maggiormente, i personaggi principali sono più individuabili. Gli ambienti diventano familiari. Ho continuato a pensare che se Wallace avesse sacrificato una parte delle pagine che ha scritto il risultato sarebbe stato più unitario, ma poi, alla fine, mi è sembrato anche di percepire perchè potrebbe non averlo fatto.
Pur nella critica del realismo, pur situandosi quindi nella corrente postmoderna, Wallace sembra in realtà voler riprodurre con la iperrealtà della sua letteratura la complessità e caoticità della vita. La impossibilità di dare ordine, coerenza ai vari dettagli, di decidere cosa sia essenziale e cosa no, non fa parte in fondo delle nostre stesse esperienze? Cerchiamo inesorabilmente un ordine che siamo destinati a non trovare. Alla fine mi è sembrato di vedere questo nella sua sovrabbondanza di scrittura. Così come cerchiamo un piacere che non si riesce a trovare, la cassetta di Infinite Jest,  e che può solo portare ad una forma diversa di morte. Così come cerchiamo di combattere il dolore, ma rimaniamo impigliati nelle dipendenze da sostanze. Non c'è nulla in questo romanzo che salva, non c'è neanche l'amore, perchè anche l'Amore è una dipendenza.
"Iniziano la cosa con i bottoni uno dell'altro. Non c'entra la conquista o la cattura forzata. Non c'entrano le ghiandole o gli istinti o il brivido che spacca il secondo o il chiodo fisso di doverti lasciare andare; non c'entra neanche l'amore né l'amore per qualcuno che desideri dentro di te, dal quale ti senti tradito. Non c'entra l'amore e non è mai l'amore, che uccide chi ne ha bisogno." (pag.678 ed. Einaudi).
C'entra molto il dolore della Cosa: " La Cosa è un senso di male radicale e completo, e non è una caratteristica, ma piuttosto l'essenza dell'esistenza cosciente. la Cosa è un senso di avvelenamento che pervade l'io ai livelli più elementari. La cosa è una nausea delle cellule e dell'anima. E' l'intuire che il mondo è molto ricco e animato, ma anche completamente doloroso e maligno e antagonistico nei confronti dell'io" ( pag.834).
Alla fine del romanzo la cartuccia master del film che produce il piacere più assoluto, il piacere  che porta alla morte, non si trova; alla fine del romanzo, senza voler svelare troppo della vicenda, ci sono solo due dei protagonisti principali (Hal Incandenza e Don Gately) stesi e immobili a confrontarsi con il dolore della astinenza ed il dolore fisico di un trauma, attraverso i ricordi di altri traumi e di altri dolori.
In questo romanzo non  c'è catarsi, non c'è un vero sviluppo, la prima scena è quella che potrebbe essere cronologicamente l'ultima della storia, ma anche solo una invenzione. I personaggi rimangono nonostante tutto uguali a se stessi e imprigionati nei loro ruoli.
E la vita è solo un caos di dolore insensato, uno scherzo senza fine ( e forse ora, nel particolare mio momento di vita, sento una incredibile sintonia con IJ).

DFW, una biografia.

A volte succede che un autore sia amato più per il personaggio che  diventa che per quello che ha scritto. Con questo non intendo sostenere che non siano importanti le opere, ma che ad un certo punto, per qualche autore, la sua vita (o la sua morte) diventi più importante delle sue opere.
Ho amato moltissimo i Diari di Virginia Woolf, i suoi saggi di critica e di militanza per i diritti delle donne, ho divorato le sue biografie e ogni traccia di lei, i film che sono ispirati al suo personaggio o tratti dai suoi personaggi, ma non ho amato allo stesso modo le sue opere narrative, tranne forse per La signora Dalloway.

Quando  ho iniziato a leggere Infinite Jest, sono arrivata quasi a metà del libro e poi l'ho lasciato un po' esaurita, ma con l'idea di ritornarvi. Ho letto i racconti di La ragazza dai capelli strani e li ho trovati molto belli e più piacevoli dell'infinito romanzo. Poi ho visto una sua biografia, di D.T. Max, e mi ha incantato il titolo Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi.
Ho cominciato a leggerla e l'ho finita in pochi giorni: è una storia struggente, che parla di David Foster Wallace e dei suoi libri. Racconta la sua depressione ricorrente, ma anche le sue  teorie intorno alla scrittura, la filosofia dei suoi romanzi e le vicende che hanno ispirato le sue storie.
Rende reali il grande dolore ed il grande talento di Wallace. Mi ha fatto tornare il desiderio di leggere Infinite Jest e di completarlo con una consapevolezza diversa.
Penso che ora che ho più chiaro il disegno e la personalità di chi ha scritto questa opera mi riuscirà anche meglio portarne a termine la lettura. Sono consapevole che una parte di questa fascinazione è anche legata  al gesto del suicidio di David.
D.T.Max non avanza spiegazioni o ipotesi, racconta che DFW ha tentato varie volte di togliersi la vita e che in fondo ha sempre alternato momenti nei quali la scrittura sembrava un modo per non farsi risucchiare dal dolore, ad altri nei quali ha avuto bisogno di anestetizzarsi dal dolore con le droghe e l'alcool. Anche se aveva trovato attraverso gli AA ( ed uno psicofarmaco) un modo di gestire il dolore interno, intenso, l'inquietudine che non lo ha mai abbandonato, ed alla fine è stato più forte il pensiero di mettere un termine definitivo alla sua sofferenza, come Virginia Woolf.
Ma non è soltanto questo il fascino che ha suscitato in me la lettura della biografia, il tema convincente, direi motivante a riprendere i suoi romanzi, è stato quello della complessità della sua scrittura tra realtà e finzione, tra ultrarealtà e ironia. Il modo nel quale Wallace ha cercato di trovare uno stile che rendesse l'incredibile "troppità" della vita. Il biografo cita una sua lettera ad un amico nella quale Wallace racconta delle sue difficoltà: scrivere roba sulla vita vera è quasi impossibile, semplicemente perché è troppa!
Il sovraccarico di informazioni, di percezioni, di opinioni, di teorie e mezzi di comunicazione dell'età moderna produce spesso solo rumore nel quale è difficile estrarre i segnali. A volte leggendo Wallace si ha l'impressione che i suoi periodi lunghissimi siano in effetti solo questo rumore, dal quale ogni tanto si staglia una frase, un pensiero che risuona invece in modo diverso.