mercoledì 23 agosto 2017

La vita immaginata. Biografie, autobiografie, diari.

Premessa intima
Sto da tempo pensando a (e tentando di)  scrivere una biografia di Matilde. Inevitabilmente si intreccerebbe con il racconto della mia vita, con quella di Valeria, di Osvaldo, dei miei familiari.
Quindi spesso mi interrompo, mi fermo a riflettere sul senso che può avere scrivere storie impregnate dei ricordi e delle emozioni di così tante persone, che ancora vivono accanto a me.
Sul senso che avrebbe per me, per cui la scrittura è sempre stata la principale cura, se non l'unica, e il modo nel quale ho affrontato, fin da adolescente,  dilemmi e tristezze, non ho dubbi.

Nel fermarmi a riflettere incontro racconti di altre vite.

"Gli  anni", di Annie Ernaux, autobiografia  di una generazione.
L'intento è chiaro fin dalle prime pagine, dense di oggetti e di piccoli e grandi eventi, che marcano il susseguirsi degli anni. Il racconto si svolge in prima persona plurale. La scelta stilistica, noi guardavamo, noi compravamo, coinvolge il lettore, più o meno coetaneo, lo rende protagonista, attiva i suoi personali ricordi. Ci si riconosce. Ogni tanto l'autrice descrive una propria fotografia, come un momento nel quale inserire la propria storia, attraverso il racconto di una immagine, che non viene mostrata. Una sorta di disincarnazione della propria presenza. Se i primi ricordi impersonali sono brevi, con il passare degli anni diventano più articolati, implicano riflessioni sulla società ed il costume, sulla politica e l'informazione dei media. Si dispiegano in giudizi complessi, rimanendo all'interno della cifra generazionale. Come se a parlare fosse un intero gruppo, la classe del 1940.

"Il porto di Toledo", di Anna Maria Ortese, autobiografia immaginaria.
Appare come un ossimoro, invece autobiografia immaginaria lo è fin nel profondo il romanzo della Ortese, che richiama la Napoli dei quartieri spagnoli, che interseca vicende reali trasfigurate e passioni durature, come l'amore per la scrittura. L'architettura di  ogni frase, anche quando rischia di apparire antiquata, diventa essa stessa protagonista. Seguire la lingua, le parole assonanti, il suono e il ritmo, le immagini visionarie, come una poesia romanzata, risulta contemporaneamente facile e impegnativo. Si ha l'impressione che non si voglia davvero descrivere, ma soltanto dare una suggestione della propria esperienza, in modo da darle vita attraverso la fantasia, invece che con i dettagli. Non è importante cosa è successo, ma come lo si è sentito e quindi anche immaginato.

"Caduto fuori dal tempo" di David Grossman, diario di un lutto.
Grossman ha atteso sei anni prima di scrivere e pubblicare un libro che riguardasse la perdita del figlio. Dopo tre giorni aveva scritto una lettera di addio bellissima (orazione funebre ). Nella lettera si rivolge al figlio, gli parla come se fosse ancora con lui. Nota che ogni frase che gli rivolge inizia con una negazione. L'universalità di alcuni meccanismi mi ha turbato, anche io avevo scritto una lettera a Matilde, anche io avevo scritto un elenco di quello che non avrebbe fatto.
Il libro piuttosto che raccontare il  lutto di un padre (grossman sullo scrivere il lutto )  mette in scena il percorso necessario al dolore. Mentre lo leggevo, in un unico lungo pomeriggio in treno, vedevo le immagini della ricerca del luogo inaccessibile del figlio, osservavo gli incontri con i viandanti enigmatici, sentivo le parole come se fossero recitate. Mi immaginavo un teatro buio, una scena scarna, i personaggi vestiti di grigio, il colore della polvere, le parole a riempire il vuoto. Il centauro-scrivania è nel suo studio e gli altri sono in movimento sul palco, dei movimenti circolari, senza scopo, senza sosta.
Il lutto è prima di tutto silenzio. Ogni parola pronunciata sembra quasi un'offesa, una arroganza nei confronti di un evento impronunciabile. (Le persone ti dicono di non avere parole e tu rispondi che non ci sono parole.)

Ma uno scrittore deve trovare parole, uno scrittore in lutto non ha altra possibilità che tornare a scrivere.

Ovviamente io non sono una scrittrice. Sono solo una persona che usa la scrittura come un modo per approfondire i pensieri che le circolano in mente, oppure per districare i nodi di inquietudine nei quali si avviluppa. Se mai riuscissi a dipanare la vita immaginata di Matilde, vorrei che non fosse solo quello che è stato, ma quello che avrebbe potuto essere e quello che si sarebbe immaginata che fosse. Quello che noi abbiamo amato e sentito di lei e quello che altri hanno vissuto e riconosciuto. Un'impresa così difficile, da risultare improbabile.