lunedì 20 giugno 2016

Brasil (tres)

Salvador de Bahia 6-7-8 maggio

Arriviamo all'aeroporto di Bahia nel primo pomeriggio e ci accoglie un tassista che nel tragitto ci fa notare, orgoglioso, il tunnel di bambù che copre il tratto iniziale della strada per la città: i fusti  si intrecciano a formare un tetto verde giada.
La pousada che abbiamo scelto è magnifica: piena di arte: quadri, statue, teli artigianali dipinti. Ha un ingresso con una piccola fontana al centro, contornata da piccole palme, un  ampio patio con un lucernario in alto. Le camere sono disposte sul loggiato.

Entriamo nella nostra camera che ha un letto a baldacchino, con il velo in pizzo macramè e la struttura in ferro, anche le coperte sono di pizzo bianco. Le pareti sono colorate di giallo e in fondo c'è un terrazzo con la vista sul mare. Ci cambiamo ed usciamo ad esplorare il quartiere Pelourinho, nella piazza principale c'era il palo, da cui il nome del quartiere, al quale venivano legati gli schiavi per essere fustigati. Salvador è una delle città più antiche del Brasile e la sua storia è legata in modo profondo alla tratta ed allo sfruttamento degli schiavi. La popolazione è ancora oggi a maggioranza nera e mulatta,  a differenza di Rio, dove ci sono anche molti bianchi. Andiamo a visitare la Fondazione Jorge Amado, uno dei primi autori che ho amato nella mia adolescenza. Gabriela, garofano e cannella è stato il libro che mi ha introdotto ad una sensualità giocosa e solare. Ci sono infatti le edizioni dei suoi libri e molti ricordi, la sua macchina da scrivere, le camicie, molte foto. Guardiamo anche un filmato sulla famiglia della moglie, Zelia Gattai, figlia di un anarchico italiano della Colonia Cecilia. Arriviamo fino alla piazza di San Francesco e mangiamo dei "acaraje", cibo di strada molto buono, una specie di calzoni fritti, ma con la pasta di fagioli e il ripieno di gamberetti. Lo servono le donne con i tipici costumi "bahiani", cioè abiti per lo più bianchi, con una sottogonna steccata che rende enormi i fianchi, già  generosi, di tessuto lavorato con  ricami e pizzo.
Nella piazza del Pelourinho entriamo nel Teatro SENAC, dove si esibisce una cantante che fa  una musica tra il dub e la musica popolare brasiliana Soraia Drummond. Siamo un po' stanchi e torniamo alla nostra Pousada, sulla strada ci fermiamo a mangiare al Ristorante Do Carmo ed assaggio il salmone alla maracuja, un mix dolce-salato insolito ma buono.
La colazione che troviamo al nostro risveglio ci stupisce: tanti dolci fatti in casa, frutta, succhi, tapioca, formaggio e pao de quejo. Il tutto in piatti coperti con tessuti sgargianti. Riprendiamo la visita proprio dalla Chiesa con il convento Monte Do Carmo. E' una chiesa poco visitata, ma molto suggestiva, soprattutto il chiostro interno e la balconata dell'organo. Nella chiesa i  giorni della Passione sono illustrati in nicchie con statue del Cristo,a grandezza naturale, in legno  Quando scendiamo nella parte dei refettori e delle camere del convento scopriamo la facciata posteriore, nera di muffa. Scendiamo di nuovo nella piazza del Pelourinho e visitiamo la Chiesa Nossa Senhora do Rosario Dos Pretos. La sua storia è particolare, perchè è l'espressione della comunità dei neri, costruita con le loro mani, letteralmente, una volta che finivano di lavorare per i loro padroni. E' una chiesa dai colori pastello, giallo e azzurro, le pareti interne sono decorate con le azulejas che illustrano episodi dei santi e alcuni cartelloni illustrano la sincreticità tra i santi cristiani e gli orixà. Cominciamo così a conoscere questa particolare forma religiosa di Bahia, il candomblè.
 Continuando la visita ci ritroviamo nella piazza principale, cerco di entrare nella Cattedrale e un giovane ci ferma per chiederci se vogliamo essere guidati in una "visita comunitaria". Comprendiamo che si tratta di una cooperativa di guide che si finanziano e danno aiuti con i ricavi delle visite turistiche. Ci spiega, in portoghese, che il quartiere Pelourinho, che una volta era il centro dalla architettura coloniale delle famiglie più ricche e aristocratiche di Salvador, dai primi anni del XIX secolo era  decaduto e le case erano state occupate, come descrive anche Jorge Amado, dalla popolazione povera, con prostitute e criminali. Da circa venti anni invece le case sono state comprate dallo Stato e rimesse a posto (ancora non tutte e vivido è il contrasto tra i colori pastello e il nero delle case ancora in attesa di restauro). Lo Stato ha poi reso le case a chi dimostrava di utilizzarle per attività turistiche, progetti artistiche e di recupero sociale. Quindi la nostra visita comunitaria andrà ad esempio a finanziare una scuola di danza, che Peter ci fa visitare, che ha lo scopo di fornire attiività alternative ai bambini in situazione di disagio. Peter vorrebbe farci visitare il mercato nella città bassa, ma io gli chiedo di poter vedere la Cattedrale, che purtroppo risulta chiusa, e la Chiesa di San Francesco, un esempio stupendo di barocco, ornata di foglia oro e statue che uniscono particolari occidentali e arte india.
Peter ci accompagna poi a vedere il Lacerda, un ascensore costruito nel 1873 in stile decò, da un commerciante, per collegare la città alta con la città bassa. E' alto 73 metri ed è uno dei punti più caratteristici della città anche per la vista che si può godere. Nella città bassa Peter ci accompagna, con l'autobus pubblico, al mercato "vero" di Sao Joaquim (non quello dove vanno i turisti comuni e che noi visiteremo a sua insaputa nel pomeriggio) . In effetti è una esperienza  così vera che mi ripropongo di non mangiare più nei ristoranti. Peter ci dice che è qui che si riforniscono infatti alberghi e locali ed io intanto osservo che la carne è esposta senza nessuna vetrina e tanto meno nei frigoriferi, le mosche si aggirano tranquille sui tagli  e nel reparto del pesce non riesco neanche ad entrare per l'odore, diciamo fortissimo, che emana.
Un po' meglio va con la parte del mercato dedicato alla frutta ed alla vedura: ci sono specie che non ho mai visto, una varietà incredibile e molto bella di colori e forme. C'è poi anche un reparto dedicato alla religione candomblè: statue, abiti, arredi e tamburi. Peter ci invita ad una cerimonia che si terrà proprio la sera stessa, insiste ancora sul fatto che non si tratta di un evento per turisti e che saremo solo poche persone esterne ad assistervi, perchè ogni "terreiro", cioè la comunità riunita intorno ad un "pae do santo" o a una "mae do santo", tiene molto a mantenere una certa riservatezza sui propri riti. Discutiamo se andare, ma alla fine la curiosità prevale. Però il racconto della cerimonia merita uno spazio a parte.
La domenica andiamo a visitare Itapuà, una spiaggia di palme, mare limpido, sabbia dorata e brezza leggera, sembrerebbe un luogo comune se non fosse proprio così. L'usanza qui è di pagare non le sdraio, ma la consumazione di un piatto con petto di pollo grigliato e boulinho di gamberoni, accompagnati da farafà e salse piccanti, riso e patate. Passiamo una giornata rilassante a leggere e chiacchierare, facciamo anche il bagno perchè l'acqua è abbastanza calda. In serata andiamo a sentire musica dal vico alla Cantina da Lua dove suona un gruppo con un front man ambiguissimo e  molto simpatico, gli Azucar.

giovedì 9 giugno 2016

Le donne di Virzì e quelle di Almodovar

Mi è piaciuto il film di Virzì su "La pazza gioia" .
Già il titolo suggerisce diversi aspetti: è una espressione che indica una contentezza estrema, ai limiti  della follia. Oppure può  essere riferita alla gioia della follia, a quel divertimento che può esserci nel sovvertire le regole, nel fare per una volta qualcosa di strano,  diverso dalla quotidianità. In realtà la "pazzia" vera, la malattia mentale,  non è affascinante, non è una condizione da invidiare, non è genialità. La follia è soprattutto sofferenza, contrariamente ad una certa retorica, non rende le persone migliori, non sempre almeno. Beatrice e Donatella  sono "malate", tristi fino a pensare che nulla valga la pena, emaciate per il rifiuto di vivere o incostanti e invadenti, presuntuose e illuse, che non vedono la realtà. Virzì si è consultato con professionisti del settore, ha visitato i centri di salute mentale, e,  ancora più interessante, ha scritturato come attrici persone che hanno partecipato alle attività teatrali di una cooperativa collegata al DSM di Pistoia, per recitare se stesse. Ad alcuni  (http://www.psychiatryonline.it/node/6283) il finale del film appare troppo buono, positivo, avrebbero preferito un finale più drammatico ed aperto.
A mio avviso invece Virzì, con il fondamentale aiuto della Archibugi, che ha collaborato alla sceneggiatura, riesce a non presentare solo dei quadri patologici, nè ad indicare una soluzione facile, ci racconta due persone complesse, donne che ragionano e scelgono, che amano, che possono sentire sintonia tra loro anche se distanti, che possono aiutarsi e sostenersi, donne come noi.
Donatella è una ragazza segnata da una famiglia scombinata, che si trova a confrontarsi con una maternità capitata per caso. Beatrice è una signora di buona estrazione, la cui fragilità la induce a travestirsi da dispensatrice di consigli e soluzioni, fino a negare la realtà del rifiuto da parte della persona amata. Bellissima anche la recitazione delle attrici, la simpatia della Valeria Tedeschi e la fragilità della Ramazzotti. E' un film  che fa ridere e riflettere, in un modo che definirei  antiromantico e antiretorico.
Invece il film di Almodovar non mi ha appassionato.
Segue una traccia, che, anche se è ispirata ai racconti di Alice Munro, è la stessa, ma meno potente, di altri suoi film. Le donne in primo piano, come spesso nei film di Almodovar,  sono una madre e una figlia, con un mistero da scoprire.
C'è una foto fatta a pezzi, un incontro che riapre improvvisamente una ferita lontana, un segreto da rivelare, per poi scoprire che invece proprio quel segreto non era più tale. Potrebbe funzionare ed invece non sono riuscita a sentirmi coinvolta. L'idea, affascinante e profonda, dell'ombra del genitore che ricade sui figli ("volevo evitare che tu ti sentissi  come me ed invece scopro che è proprio così che ti sei sentita") viene resa in modo troppo didascalico: il montaggio e la trama del film  appaiono come un susseguirsi di scatole cinesi che si aprono, una dietro l'altra, senza vitalità. Le protagoniste mi sono sembrate bloccate, con una recitazione piatta, di fronte ai drammi nei quali invece sono coinvolte. Dalla scomparsa della figlia, Julieta compra ogni anno una torta per il suo compleanno e la getta poi nei rifiuti: mi è apparso un modo banale per segnare il senso di perdita e l'emergere della rabbia.
Le donne di Virzì si mostrano più frastagliate, non hanno capito tutto, sono inquiete, alla ricerca di qualcosa,  le donne di Almodovar, in questo film, mi sembrano troppo rigide, in molti sensi, con se stesse, con gli altri.
Julieta e Antia sarebbero sane e sembrano malate, Donatella e Beatrice sono pazze e assomigliano a molte di noi.


venerdì 3 giugno 2016

Brasil (dois)

Ancora Rio de Janeiro, 3-4-5-maggio
Ci alziamo con l'intenzione di salire sul Pao de Azucar, non riusciamo ad uscire prima delle dieci per le piacevoli chiacchiere della colazione con Chiara ed un altro ospite della pousada, Sergio, che è in Brasile per un documentario. Scopriamo che ha raccontato la storia di una concittadina che vive da diversi anni in Amazzonia e che ha fondato insieme al marito una scuola per i bambini indios. L'associazione è Vivamazzonia e Giuseppe conosce proprio lei, Bianca Bencivenni, coincidenza che ci colpisce. Il mondo è più piccolo di quanto possiamo immaginare.
Una volta usciti prendiamo la metro, che scopriamo ampia e comoda, anche se l'aria condizionata è al massimo, come in quasi tutti i mezzi pubblici ed i taxi, insopportabile per noi. Arriviamo a Botafogo, da dove dovremmo prendere la funivia per l'escursione sul Pao de Azucar, che però è chiusa, Una ragazza gentile ci spiega che è in manutenzione e ci dà indicazioni per mete sostitutive, ma decidiamo di rimanere sulla piccola spiaggia che è proprio sotto la funivia e scopriamo una  insenatura tranquilla, prendiamo un po' di sole e facciamo anche un (per me breve) bagno. Le onde sono un po' troppo forti per i miei gusti, in fondo si tratta dell'Oceano. Giuseppe compra il cocco, non la noce bruna e pelosa che siamo abituati a vedere nei nostri supermercati,  per bere l'agua de coco.
A pranzo ci spostiamo verso la zona più frequentata ed entriamo in un centro commerciale moderno, comprare è uno dei divertimenti del viaggio: troviamo una guida di Rio in portoghese ironica e inusuale ed io acquisto il mio taccuino di viaggio, una tradizione che ho da molti anni. Mi scrivo piccoli particolari: le ragazze portano pantaloncini corti e calzettoni bianchi di cotone grosso fino al ginocchio, deve essere una moda locale, ma è abbastanza brutta. Sui muri spesso ci sono graffiti, alcuni anche molto belli, a volte servono per indicare negozi o attività. Il numero dei taxi è superiore a quello delle macchine private. Ci sono moltissimi baracchini che vendono cibo da strada: frittelle, pop corn salato o caramellato, spiedini di formaggio e vari tipi di hot dog.
In serata torniamo alla nostra stanza e ci prepariamo per tornare a Lapa, ma il tassista non conosce il locale che cerchiamo e dopo qualche giro a vuoto rinunciamo, mangiamo in un ristorante molto affollato la piquanha brasileira, un piatto di carne alla griglia, accompagnata da fagioli neri in umido, riso bianco e patate, con salse piccanti, una pietanza tipica e molto buona. Non si spende molto per mangiare, in due raramente abbiamo superato i 45 euro. Tra l'altro usano davvero poco il pane di grano e quindi io non ho grandi problemi di contaminazione con il glutine. Scopro che la tapioca (farina di un tubero naturalmente senza glutine) è molto utilizzata per piadine, panini e dolci.
Giuseppe però dopo cena non rinuncia ad un po' di musica ed andiamo in un locale vicino Insensato, per la nostra serata di samba dal vivo. Cerca anche di farmi ballare, ma mi sento un po' in imbarazzo, tutti sembrano ballare molto bene. Decido che a settembre riprenderò un corso di danze latino-americane.

 Il giorno dopo mi sveglio con gli occhi arrossati, ho paura di aver preso una forma di congiuntivite e chiedo a Chiara dove posso farmi vedere. Il Brasile ha un sistema sanitario prevalentemente privato e Chiara mi indirizza ad un ambulatorio poco lontano da Santa Teresa. La dottoressa è molto gentile e ci capiamo usando un po' il mio inglese e un po'  il portoghese di Giuseppe. Per fortuna non è un'infezione, forse le lunghe ore in aereo hanno disidratato gli occhi. Dovrò usare gli occhiali per qualche giorno.
Andiamo a visitare la Escalera Selaron, un'opera naif di un personaggio, carioca d'adozione, che con pazienza ha piastrellato, anno dopo anno, tutti gli scalini di una lunga scalinata del nostro quartiere, l'effetto è bellissimo. Arrivati in cima prendiamo un vecchio tram, che una volta serviva come mezzo ed ora è stato restaurato ad uso dei turisti e che unisce Santa Teresa e Lapa, il Bonde. E' divertente osservare le case di stile coloniale, ce ne sono alcune restaurate con colori pastelli, mentre altre sono ancora in uno stato di abbandono. Il contrasto tra angoli affascinanti e posti degradati è sempre fortissimo.
Nel pomeriggio ci spostiamo sulla spiaggia di Ipanema, quando partiamo c'è un bel sole, ma usciamo dalla metro  ed il cielo si è coperto. Sulla spiaggia non si riesce a stare per il vento, comincia a piovere allora ripariamo in un locale a mangiare "a chilo", cioè possiamo prendere quello che vogliamo da un ampio buffet e paghiamo secondo il peso, una bella idea. Nel pomeriggio riusciamo a stare un po' sulla spiaggia, dove scopriamo che non si paga il noleggio delle sdraio, ma la consumazione. Infine visitiamo anche il locale della Garota de Ipanema, la famosa canzone di Vinicius de Moraes e Tom Jobim. I brasiliani in effetti danno molta importanza alla musica, l'aeroporto di Rio ad esempio si chiama " Tom Jobim" ed anche alcune strade hanno nomi di musicisti.

La sera riusciamo a trovare il locale che cercavamo: Rio Scenarium. E' un bell'ambiente, ampio e arredato con oggetti di modernariato, c'è un piccolo palco per  il gruppo musicale e una pista dove si esibiscono coppie molto impegnate. E' interessante guardarle, ma mi mettono ancora più soggezione.
L'ultimo giorno a Rio inizia di nuovo con la splendida colazione di frutta, dolce al cocco, piadina di tapioca e marmellata e soprattutto succhi di frutta freschi di guaiava, mango, abacaxi, papaya. Lo dedichiamo al Museo do Amanha e a Copacabana. Il Museo utilizza tutti gli strumenti multimediali possibili per interessare al tema della salvaguardia ecologica, a tratti interessante, soprattutto dal punto di vista scenografico, a tratti un po' scontato. Invece Copacabana è diversa da come me la immaginavo. Giuseppe non fa altro che ripetere "Non so se mi rendo conto!" con meravigliato disincanto, mentre io rimango colpita dai grattacieli proprio addossati alla spiaggia, purtroppo, anche oggi, ventosa. Mangiamo ad un chiosco un pesce arrosto che non riusciamo a individuare: sembra un pesce preistorico, con molte pinne dorsali, però la polpa è saporita. Un cantante di strada suona canzoni di Caetano Veloso ed il quadro sembra completo. Mancano le ragazze con il tipico costume brasiliano, ne passa solo una nera e attraente. Nel pomeriggio riusciamo anche a stenderci al sole, poi giriamo un po' nelle strade del quartiere. Ci sono  palazzi eleganti, ma a mano a mano che ci avviciniamo alla favela adiacente, i palazzi hanno dei cancelli blindati, inferriate molto alte e l'eleganza delle recinzioni non riesce a nascondere la paura e l'evidente classismo. Le differenze di ceto sembrano più evidenti  che nella nostra. Serata ancora a Lapa, al Sarau Rio, e finalmente balliamo!





mercoledì 1 giugno 2016

Brasil (Um)

Ci vorrebbe un file musicale per rendere più intensa la descrizione del nostro viaggio brasiliano. D'altronde era la musica il motivo che spingeva Giuseppe a partire: ascoltare la musica dove viene creata, vedere i locali che aveva fantasticato, riuscire casomai ad incrociare qualche musicista conosciuto. Ci vuole anche molto tempo per raccontare, quindi credo che pubblicherò un giorno o due alla volta.

Rio de Janeiro, lunedì 2 maggio.
L'aeroporto non ci è apparso molto confortevole, forse anche per l'orario di arrivo. La prima impressione della città è stata caotica: strade a quattro corsie tra le quali le auto si spostano in modo confuso, anche il nostro tassista fa delle gincane pericolose. Sul taxi le stazioni radio sembrano abbastanza simili alle nostre, qualche canzone in portoghese, molte in inglese. Giuseppe comincia a praticare la lingua, io osservo la teoria di case che si susseguono, alcune molto moderne, altre fatiscenti, sembra che non ci sia una via di mezzo tra i vetri lucidi dei grattacieli e le lamiere delle favelas.

Il tassista ci chiede il numero di telefono della pousada che abbiamo prenotato e chiama per farsi dare indicazioni, così annuncia il nostro arrivo, che non avevo fatto in tempo a comunicare. Ci viene ad aprire Fernando, il nostro ospite, e ci fa  accomodare in una stanza arredata semplicemente, ma con quadri alle pareti e molto colorata. La pousada è nel quartiere di Santa Teresa, un quartiere storico, che è stato "recuperato da pochi anni, Fernando e Carmen hanno completamente ristrutturato gli ambienti. C'è una bellissima terrazza dalla quale si ammira uno scorcio di Rio. Ci invitano a fare colazione e arriva Chiara, una italiana che si è trasferita a Rio per la sua passione per le percussioni. Ora lavora per Carmen e Fernando e fa parte di una delle scuole di samba che organizzano il Carnevale come percussionista. Ci introduce subito al mondo complesso che stiamo per affrontare, ci spiega come muoverci, consigliandoci di usare i taxi che sono economici per noi e più efficienti dei mezzi pubblici, tranne che la metro. Ma per il nostro primo spostamento prendiamo un bus e arriviamo sotto al Corcovado, sbagliando però la fermata, quindi dobbiamo cambiare e prenderne un'altro.
Per salire al Corcovado ed arrivare al Cristo Redetore, prima tappa della visita, prendiamo il trenino che attraversa la foresta (si fa per dire) di Tijuca. Ci sono molti turisti come noi, ma la vista vale la pena. Dalla terrazza si comprende la morfologia della città, dei suoi quartieri distesi o arroccati, nelle valli e tra i Morri (colline), delle coste e spiagge e di fronte l'Oceano. C'è il sole, però non fa troppo caldo, in Brasile la stagione ha le temperature di un autunno un po' più caldo del nostro.
Scendiamo in una spiaggia piccola, Urca,  che Chiara ci ha consigliato: la sabbia è granulosa e luccicante, l'acqua abbastanza pulita, ma non ci sentiamo di metterci in costume, pranziamo e cerchiamo un museo che ci ha colpito sulla guida Museo do indio, sulla cultura delle popolazioni che abitavano qui prima della conquista dei portoghesi. Il museo documenta quello che rimane degli indios e soprattutto le loro tecniche di tessitura: ci sono dei campioni molto interessanti di abiti, collane, copricapi, bracciali, peccato che le didascalie siano solo in portoghese. Non ci rimane molto tempo, ma decidiamo comunque di andare a visitare il Museo do Amanha: la struttura architettonica è splendida e all'ora del tramonto in cui arriviamo è illuminata in modo suggestivo di luci giallo-arancio che contrastano con l'azzurro indaco del cielo. Però sta chiudendo e dobbiamo rimandare la visita.
In serata Giuseppe ha già deciso di andare al Carioca da Gema, un locale famoso del quartiere Lapa, dove suonano e cantano artisti di samba e altri generi musicali, si mangia anche abbastanza bene. A Lapa torneremo più volte, perchè la concentrazione di locali di musica brasileira è molto alta, quasi uno ogni dieci metri. La serata merita, anche se io sono molto stanca. Ma è un piacere vedere la pura gioia negli occhi di Giuseppe. Inoltre per ora tutte le mie paure di inizio viaggio si sono, come sempre, dileguate: il viaggio in aereo è andato bene, la città è caotica, ma non sembra pericolosa, la gente ospitale e serena. Siamo stati in particolare fortunati nello scegliere la pousada giusta.