giovedì 28 maggio 2015

La genialità di Paolo Sorrentino (che non hanno visto a Cannes) e la caduta dei sogni.

Cosa significa realizzare i propri sogni?
Ho l'impressione che il film di Sorrentino giri anche intorno a questa domanda, insieme a molte altre.
In occidente  la missione più importante dell'esistenza individuale è costruirsi delle aspirazioni e lottare per renderle reali (voglio diventare un calciatore, un cantante, una attore, la donna più bella del mondo, il regista più famoso). E poi? Cosa significa realizzarsi? Come si  guarda al proprio passato dal futuro realizzato?
La scena del cannocchiale rovesciato, il futuro vicino, il passato lontano, fa come da cornice alla storia di un ottimo musicista che  non è un buon padre, al suo  rapporto con la figlia, con la moglie amata e trascurata.
Un attore  vuole mettere in scena il desiderio e non l'orrore di Hitler e osserva i desideri e gli orrori dell'albergo, osserva i corpi in fila per le cure termali , i corpi e la decadenza, i corpi e la bellezza nuda della giovinezza. Cosa rimane di tutta quella bellezza? Come si possono coniugare l'orrore di una maschera e l'eleganza del lusso?
La figlia del musicista  scopre che una forma di amore  non è per la bellezza, ma per la sguaiatezza.
Sorrentino presenta le storie senza giudicarle, senza interpretarle, solo con la musica e le immagini, come se fosse solo la vita, per quello che è.
Intreccia i personaggi e li fa intravedere nella loro parte incompleta: la coppia che non si parla, lo scalatore e la figlia del musicista, Maradona ed il modo in cui il suo corpo si è ridotto, Miss universo ed il suo corpo perfetto e poi le canzoni semplici, che sono popolari, ma anche bellissime.
I bambini già così consapevoli.
Tutti sembrano parlare come filosofi, tutti cercano di dire e dare un significato alla loro ricerca di felicità.
Non è un film realistico, è un film che cerca di presentare le essenze, come se provasse a dare una concettualizzazione a domande complesse. Ma non sono solo suggestioni, sono quasi punti di vista filosofici.
La storia del regista e della sua attrice, la delusione del suo rifiuto, dopo averla scoperta e sostenuta, sembra mostrare il rifiuto di continuare a vivere una vecchiaia che non si è realizzata.  Le domande sulla fine del film, su come finire una storia, possono essere domande su come finire la nostra vita.
Quando  il regista Keitel  dice siamo solo comparse e quando  pensa di aver compreso le donne nei suoi film ed invece gli compaiono davanti come marionette non siamo di fronte a delle sequenze di una vicenda, ma a dei pensieri in immagini e non a dei pensieri compiuti, ma a delle domande, a degli spunti.
Quello che per me rappresenta la genialità è proprio l'incompiutezza, il non voler per forza stringere i personaggi e le storie in tesi precostituite, ma l'accennare degli sviluppi nei quali ogni spettatore può trovare la sua domanda, la sua riflessione, il suo punto di vista.
Io ad esempio ho sentito emergere la domanda co cui ho iniziato queste riflessioni, ma altri potrebbero benissimo avervi visto o sentito altre domande, qualcuno evidentemente non vi ha sentito nulla (ad esempio Fofi lo stronca).
Può succedere anche ai grandi film.

martedì 19 maggio 2015

Mia madre

A volte ci sono film che sanno colpirci subito, altre volte ci vuole del tempo per elaborarli e capirli.
Mi ero fatta alcune aspettative su questo film, che invece non hanno trovato un corrispettivo. Margherita Buy riesce a rendere bene, forse anche troppo, la nevrosi dell'alter ego morettiano.
John Turturro è un vero istrione nel mettere in scena i vizi ed i vezzi di un attore straniero in Italia, in effetti le scene del suo personaggio alla guida della macchina, mentre cerca di recitare e di guidare nonostante la telecamera montata sul cofano, sono  davvero divertenti. Anche Giulia Lazzarini risulta molto credibile nel suo ruolo di madre malata e un po' confusa. E' tenera e autorevole allo stesso tempo.
Eppure non sono uscita dalla sala convinta. Il senso di angoscia che mi ha provocato non era solo in relazione allo stile e alla storia del film, era anche dovuto ad un senso di incompiutezza, una sorta di sensazione di non integrazione tra i vari piani che il regista ha voluto presentare.
Come se non riuscissi a trovare la cifra tra la messa in scena di un film sugli operai, anacronistico e finto, il sorriso e l'ironia dell'attore italo americano, le insicurezze della regista, la difficoltà di accettare la malattia e la morte della madre, i sogni incoerenti di Margherita.
E' vero che il dolore colpisce e si insinua nelle crepe della quotidianità e che si può continuare a vivere come se non fossimo circondati dalla angoscia. E' vero che si può aspettare la morte di una persona amata e non esserne davvero consapevoli, che si può mantenere scissi i piani del lavoro e quello della relazione di cura. E' tutto molto realistico.
Eppure a me è sembrato che mancasse di intensità.
I dialoghi mi hanno lasciato perplessa, come se non riuscissero ad andare davvero in profondità.
Un bel tentativo, ma incompiuto. Anche il ruolo defilato che si è riservato Moretti risulta troppo sfumato. E' un film di accenni, senza sviluppi.
C'è però una scena che per ragioni personali mi ha invece coinvolto molto, quella nella quale Margherita insegna alla figlia ad andare in motorino, una scena semplice e commovente. Valeria, seduta accanto a me , mi ha guardato, ci siamo capite senza parole.
Chissà se il film a Cannes conquisterà la giuria, il pubblico francese sembra esser stato già convinto.