giovedì 5 settembre 2013

La vita è un caos di dolore insensato, o dello scherzo senza fine (Infinite jest).

La lettura del lunghissimo romanzo di David Foster Wallace, Infinite Jest, è stata essa stessa una storia. Ho iniziato a leggerlo nel 2010, quando ero in una fase particolare della mia vita, dopo la rottura di una relazione importante ed all'inizio di una nuova relazione d'amore. La complessità della scrittura di Wallace mi aveva intrigato, ma anche affaticato. Il libro non ha una struttura cronologica semplice, non solo perchè gli Anni Sponsorizzati non sono subito individuabili, ma anche perchè lo sviluppo delle scene non segue un ordine, neanche a volerlo immaginare come dei flash back. Il tempo di Infinite jest è ricorsivo, circolare, si annoda su se stesso. Una stessa giornata ritorna più volte, in momenti diversi, con protagonisti diversi  e nonostante gli sforzi per tenerne nota, alla fine si comprende che non c'è un ordine, ma solo una apparente sinconicità. Anche il legame tra i personaggi, tanti e diversi, e tra gli ambienti non è evidente nei primi capitoli, subito si avverte la necessità di avere una guida al romanzo, che sia da parte di qualcuno che l'ha già letto.
Infine il tipo di scrittura varia molto da scena a scena: ci sono dialoghi, elenchi, a volte essenziali, a volte lunghissimi. Ci sono abbreviazioni e iniziali che disorientano, termini colloquiali o troppo tecnici. Ci sono note che invece che agevolare la lettura la rendono ancora più articolata e complessa (ed ho spesso deciso di saltarle). Ci sono descrizioni che entrano nei dettagli di oggetti e di ambienti che si fatica a trovare significativi ed a volte diventano solo rumore di fondo. Mi sono trovata a leggere quasi come se navigassi in un mare di dettagli nei quali cercavo un orientamento, come se dovesse prima o poi arrivare un segnale che desse un ordine, ma senza riuscire ad approdare davvero da qualche parte. Poi all'improvviso dopo pagine di navigazione di lettura ecco una perla, una pagina entusiasmante, che illumina il percorso, ma senza davvero connetterlo in un unico senso.

Ho quindi deciso di lasciarlo, di sospenderlo, mi sono detta, per un po', come avevo sospeso la lettura di Proust, nell'attesa di trovare un momento giusto per riprenderlo. Poi, in un momento di nuovo molto particolare della mia vita, dopo la perdita atroce di mia figlia,  ho trovato la biografia di D.T.Max, che ha fatto rinascere una curiosità verso IJ.
Per riannodare i fili mi sono trovata a cercare in rete una sorta di bignami del romanzo ed ho trovato  sul sito Scarabooks una utilissima guida che ho utilizzato per non riprendere l'orientamento.
Poi piano piano non ne ho avuto bisogno e la mia lettura è stata sempre più facile. Le storie nella seconda parte del libro si intrecciano maggiormente, i personaggi principali sono più individuabili. Gli ambienti diventano familiari. Ho continuato a pensare che se Wallace avesse sacrificato una parte delle pagine che ha scritto il risultato sarebbe stato più unitario, ma poi, alla fine, mi è sembrato anche di percepire perchè potrebbe non averlo fatto.
Pur nella critica del realismo, pur situandosi quindi nella corrente postmoderna, Wallace sembra in realtà voler riprodurre con la iperrealtà della sua letteratura la complessità e caoticità della vita. La impossibilità di dare ordine, coerenza ai vari dettagli, di decidere cosa sia essenziale e cosa no, non fa parte in fondo delle nostre stesse esperienze? Cerchiamo inesorabilmente un ordine che siamo destinati a non trovare. Alla fine mi è sembrato di vedere questo nella sua sovrabbondanza di scrittura. Così come cerchiamo un piacere che non si riesce a trovare, la cassetta di Infinite Jest,  e che può solo portare ad una forma diversa di morte. Così come cerchiamo di combattere il dolore, ma rimaniamo impigliati nelle dipendenze da sostanze. Non c'è nulla in questo romanzo che salva, non c'è neanche l'amore, perchè anche l'Amore è una dipendenza.
"Iniziano la cosa con i bottoni uno dell'altro. Non c'entra la conquista o la cattura forzata. Non c'entrano le ghiandole o gli istinti o il brivido che spacca il secondo o il chiodo fisso di doverti lasciare andare; non c'entra neanche l'amore né l'amore per qualcuno che desideri dentro di te, dal quale ti senti tradito. Non c'entra l'amore e non è mai l'amore, che uccide chi ne ha bisogno." (pag.678 ed. Einaudi).
C'entra molto il dolore della Cosa: " La Cosa è un senso di male radicale e completo, e non è una caratteristica, ma piuttosto l'essenza dell'esistenza cosciente. la Cosa è un senso di avvelenamento che pervade l'io ai livelli più elementari. La cosa è una nausea delle cellule e dell'anima. E' l'intuire che il mondo è molto ricco e animato, ma anche completamente doloroso e maligno e antagonistico nei confronti dell'io" ( pag.834).
Alla fine del romanzo la cartuccia master del film che produce il piacere più assoluto, il piacere  che porta alla morte, non si trova; alla fine del romanzo, senza voler svelare troppo della vicenda, ci sono solo due dei protagonisti principali (Hal Incandenza e Don Gately) stesi e immobili a confrontarsi con il dolore della astinenza ed il dolore fisico di un trauma, attraverso i ricordi di altri traumi e di altri dolori.
In questo romanzo non  c'è catarsi, non c'è un vero sviluppo, la prima scena è quella che potrebbe essere cronologicamente l'ultima della storia, ma anche solo una invenzione. I personaggi rimangono nonostante tutto uguali a se stessi e imprigionati nei loro ruoli.
E la vita è solo un caos di dolore insensato, uno scherzo senza fine ( e forse ora, nel particolare mio momento di vita, sento una incredibile sintonia con IJ).

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