mercoledì 14 marzo 2018

Figlia mia

Sarà stato il titolo, sarà stato che le attrici che lo interpretano mi sono sempre piaciute, ma il film di Laura Bispuri mi ha attratto subito.
La trama grezza, come la fotografia, in una terra aspra, la Sardegna lontana dalle cartoline, i dialoghi, a volte incomprensibili, donano al film una sorta di patina vecchia, come se fosse una storia di altri tempi.
Invece è un racconto dei nostri giorni, di mondi paralleli e lontani, di emarginati, che vivono in campagna, poveri, insieme ai loro animali. Case semplici con pochi arredi. Mobili consumati e riadattati, locali squallidi in cui si beve per lasciarsi andare a qualche contatto umano.
Alba Rohrwacher è davvero splendida, in un ruolo spigoloso, una madre improbabile, che però apre alla figlia l'esperienza del coraggio, dell'affrontare prove difficili e dello sconfiggere la paura.
Valeria Golino è una madre intensa, preoccupata, possessiva, ma dolcissima, e alla fine disponibile a condividere il suo amore.
Sara Casu mostra con i suoi silenzi tutti i dubbi di una bambina e tutte  le domande che non riesce a fare.
I tre personaggi  condividono un problema profondo, quello della "appartenenza".
C'è una espressione del dialetto della mia terra, anch'essa nel meridione, che si usa per sapere chi è una persona: si può tradurre con  "A chi appartiene?".
Mi è sempre sembrata una espressione forte e, a volte, quasi irrispettosa della individualità. In fondo definisce una persona in base alla appartenenza ad una famiglia, come se non fosse importante niente altro.
Però è anche un modo di dire che solleva un problema fondamentale nella costruzione della nostra identità, quello di "sentirsi parte" di qualcosa, una famiglia, o di qualcuno, una madre.
La domanda "chi sono?" non si può distinguere da quella "da chi vengo?".
Il film della Bispuri, mettendo l'aggettivo possessivo accanto alla parola figlia, sottolinea proprio che ciò che è dato per scontato, l'appartenenza di una figlia alla madre, non lo è. Non solo nella adozione, ma sempre.
La sensazione che si ha di un  film fuori dal tempo rimanda anche ad una dimensione mitica. Da sempre le relazioni delle  madri con i propri figli sono al centro della narrazione epica, religiosa, mitologica.
La scena della discesa della bambina  nel buco nella roccia, per quanto facilmente simbolica, rimane a mio avviso evocativa. Da un buco nasciamo, in un buco torniamo, ed i legami che tessiamo nel tempo di mezzo sono quelli che ci definiscono come persone.



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